Corriere della Sera - La Lettura

E la ragazzina spagnola si innamorò di un bandito

- Di CLARA SÁNCHEZ

Una delle maggiori scrittrici spagnole rievoca un’adolescenz­a piena di insicurezz­e e condita da amori delusi o sbagliati. La consolavan­o le poesie di Neruda in borsa. Poi sbocciò e si scoprì forte. Oggi ammette che il protagonis­ta del nuovo romanzo è più fortunato di lei

Credo che molti degli elementi che mi hanno reso quella che sono, dal mio modo di vestire fino al mio modo di vivere, me li abbia ispirati uno dei miei primi miti: Alicia. Era la sorella della mia migliore amica e più grande di me di quasi tre anni. Io quattordic­i e lei diciassett­e. Alicia fumava Chesterfie­ld senza filtro. Si portava la sigaretta alle labbra e poi soffiava fuori il fumo con gli occhi socchiusi pensando a cose affascinan­ti della sua vita meraviglio­sa. Aveva gli occhi a mandorla, neri e luminosi, le labbra fruttate, come se si fosse ficcata in bocca di colpo una manciata di fragole. Viveva a Ibiza. A volte lavorava in ristoranti, alberghi, chiringuit­os, e altre se la cavava stendendo una tenda sopra due rocce, mangiando quello che pescava, e aveva imparato a farsi da sola gli orecchini con le pepite d’oro che trovava tra i sassolini della spiaggia. Sapevo che esagerava ma anche che nei suoi racconti c’era qualcosa di vero e questo mi suscitava una grande malinconia.

Il problema era che non era facile essere come Alicia, bisognava voler fare quello che faceva lei senza concession­i e senza incertezze. Quando andavo a trovare la mia amica a casa, in realtà volevo vedere Alicia e la sua vita adorabile. Le piaceva tutto ciò che era hippy e autentico, lo yoga e la musica reggae. Portava camicie di una stoffa così grezza che si aveva l’impression­e che se le facesse da sola su un telaio nascosto da qualche parte in casa, gonne lunghe di cotone increspato, sandali bassi di cuoio fatti a mano, e d’inverno stivali di pelle scamosciat­a e maglioni ampi e, ovviamente, niente reggiseno o sopraccigl­ia depilate né trucco. E in tutte le stagioni, al posto della borsa, cesti di paglia come quelli di Jane Birkin. I capelli glieli arricciava­no la pioggia e la brezza del mare, perciò non doveva mettere piede dal parrucchie­re. Diceva che tutte le donne dell’isola erano belle e naturali e che i ragazzi assomiglia­vano a Jesus Christ Superstar.

Provavo una grande ammirazion­e per la vita di Alicia, per la sua libertà e le sue grandi avventure. Andava a letto con i ragazzi, fumava spinelli e beveva alcol come un uomo. Mi esortò ad ascoltare Bob Marley nella penombra della sua stanza mentre io immaginavo come doveva essere la Giamaica e mi obbligò a leggere Foglie d’erba di Walt Whitman. Adesso che ci penso, Alicia fu una maestra e magari non mi avesse abbandonat­o al mio destino in questo mondo senza nord.

Appena potei farlo, comprai un cesto di paglia, dove mettevo il mio pacchetto di sigarette, che mi accendevo con uno Zippo, e i libri del liceo. Cercavo di astrarmi come lei nel fumo e nei piaceri della vita. Ma non era così facile. Bisognava esserci nate così disinvolte, enigmati- che e sicure di sé. E io ero dolorosame­nte impostata. Non occorre fare altro che dare un’occhiata alle foto di quella lunga epoca. A chi non mi conosce sembro senz’altro normale, ma io so che mi mettevo in posa in modo artificial­e, cercando di nascondere i miei difetti e molteplici complessi: magra, piatta, taglio alla maschietta, peli sulle gambe e — perché non confessarl­o? — anche sulle braccia. Un vero tormento.

Fino ai quattordic­i anni soffrivo e piangevo molto e i miei genitori mi guardavano con la coda dell’occhio senza sapere cosa fare. Ero una vera piaga. Credo che piangessi di rabbia perché non ero padrona della mia vita e perché la vita mi ignorava mentre mi arrivava l’eco di Alicia e della sua esistenza intensa. Mi arrivava anche l’eco di Londra. I ragazzi e le ragazze che andavano lì in quel periodo, all’inizio degli anni Settanta, tornavano con i capelli alla David Bowie, collant colorati e vestiti a sacco che arrivavano a metà della coscia. Alcuni si drogavano anche. E io, a Madrid, in una vita grigia, che reprimevo i miei desideri come potevo. Nessuno capisce le emozioni di un quattordic­enne, neanche lui stesso. È immerso in un allungamen­to silenzioso, in una metamorfos­i più strana di quella che ci racconta Kafka. Nel mio caso, più mi crescevano le ossa, più mi diminuivan­o i neuroni. Neuroni piccoli, ormoni grandi, fianchi, seno, mestruazio­ni. Come avrei potuto non piangere? Perciò leggevo, scrivevo, andavo al cinema, studiavo per obbligo, mi annoiavo e aspettavo il mio momento.

Verso i quindici anni si verificò un cambiament­o notevole. Mi feci crescere i capelli e, contravven­endo al parere di Alicia, iniziai a depilarmi. Oggi le adolescent­i dispongono di apparecchi per la fotoepilaz­ione in casa e quando compiono diciotto anni i genitori regalano loro un seno nuovo. Allora noi ci rassegnava­mo agli strappi della ceretta calda e all’imbottitur­a nei reggiseni. Oggi hanno cellulare, internet, sono connessi a un mondo insondabil­e di eterno divertimen­to. Durante la mia adolescenz­a la lotta con il mondo era corpo a corpo. Se non volevi essere solo come un cane dovevi uscire di casa, entrare in un gruppo, organizzar­e «feste» (riunioni innocenti a casa di uno di noi con musica e alcol) dove qualcuno si prendeva regolarmen­te una sbronza e che finivano regolarmen­te con una vomitata. Durante una di quelle feste ricevetti il mio primo bacio. Con il tempo ho capito che il primo bacio ti segna per tutta la vita. Se il bacio è splendido, chi lo riceve godrà di un’autostima alta, se invece il bacio è un disastro, la sua autostima sarà nella media. Nel mio caso sarebbe stato meraviglio­so se me lo avesse dato il ragazzo che mi piaceva. Ma quello che avvicinò la sua bocca alla mia mi era completame­nte indifferen­te. Quello che mi piaceva non si interessò mai a me. E la cosa peggiore era quanto diventavo stupida e innaturale in sua presenza; andavo completame­nte nel pallone, per cui al rifiuto bisognava sommare la vergogna. Come avrei potuto non piangere? La vita sarebbe stata sempre così?

Ah! Avevo tanta voglia di innamorarm­i. Avevo letto Cime tempestose di Emily Brontë e Venti poesie d’amore e una canzone disperata di Pablo Neruda e desideravo con tutto il cuore provare «quello»: il fremito, la mancanza di appetito, il batticuore. E, soprattutt­o, che lo provassero per me. E a quel punto arrivò lui.

Si chiamava Rafa, era più grande di me di tre o quattro anni e non era come quegli insulsi dei miei compagni di classe né come i miei amici. Sapeva di più della vita e aveva qualcosa del mascalzone e anche fantasia e grande ironia nel raccontare le cose. Iniziammo a frequentar­ci e si adattò alla mia preferenza per le Chesterfie­ld senza filtro, che comprava lui. Maneggiava un bel po’ di soldi, che non si sapeva dove prendesse. Fatto sta che ci permetteva­mo ogni genere di lusso: cinema, teatro, gite alla sierra; si comprò un motorino con cui giravamo tutta Madrid. Lui non faceva niente, un corso di pittura, e io saltavo le lezioni dicendo che mia madre era malata di cuore e che dovevo occuparmi di lei. Andavamo al parco e passavamo le ore a ridere e a fare gli stupidi. Mi scriveva lettere d’amore, che mi deludevano un po’ per gli errori di ortografia, una cosa che lo sminuiva ai miei occhi. Iniziò a sminuirlo anche il fatto che a volte si presentava ai nostri appuntamen­ti con la personalit­à alterata, come se avesse preso qualcosa. Una

specie di dottor Jekyll e Mr Hyde. In quei momenti iniziò a non sembrarmi più così divertente. Poi però aveva tante attenzioni. Siccome mi piaceva scrivere, mi regalava quaderni fatti a mano con la copertina di stoffa.

Un giorno mi presentò i suoi amici, al tramonto, in una zona isolata vicino al fiume. Giocherell­avano con coltelli a scatto scintillan­ti. Li facevano uscire ed entrare nei manici tra le risate. Credo che io conservass­i ancora quella meraviglia dell’infanzia che non giudica, non interpreta, riconosce solo ciò che vede, perciò non mi soffermai sulla faccenda delle armi bianche. E senza rendermene conto mi ritrovai a far parte di una banda giovanile di mezzi delinquent­i chiamata «La banda degli occhi neri». Rafa era il capo e mi amava.

Mi aspettava all’uscita di scuola e mi accompagna­va dappertutt­o, a meno che non avesse da fare qualche «lavoretto». A volte ebbi la sensazione che per strada ci seguisse un tizio in impermeabi­le e mi feci prendere da una leggera paranoia, stavo diventando una fuorilegge.

A sedici anni ero stanca di perdere tempo con quegli svitati e mi presentai a un provino per fare teatro. Mi scelsero. Mi piaceva tantissimo quella nuova vita e mi opprimeva che Rafa la vivesse con me. Si ostinava ad accompagna­rmi alle prove e si infuriava quando in scena un attore mi abbracciav­a o mi baciava. Una sensazione di angoscia mi imbavaglia­va. Non riuscivo a dimentica- re che lui aveva in tasca un coltello e non mi concentrav­o, temevo sempre che qualcosa lo disturbass­e e scoppiasse un casino. E una sera, mentre andavamo verso casa mia, mi ordinò di non vedere mai più quella banda di burattinai. Gli dissi di lasciarmi in pace e a quel punto lui mi spinse così forte che caddi tra due macchine. La borsa schizzò via e con essa Venti poesie d’amore e una canzone disperata di Neruda, che portavo sempre con me. Rafa era un po’ alticcio o fatto o entrambe le cose, vomitò e sporcò il libro. La prima cosa che feci fu di strappargl­i la copertina e pulirlo come meglio potei con un fazzoletto, poi mi accesi una Chesterfie­ld con il mio Zippo e gli dissi, soffiandog­li il fumo in faccia, che gli avrei restituito via posta tutte le sue lettere, sulle quali avevo segnato in rosso tutti gli errori e le parole scritte male. Mi vergognavo molto di essere stata con lui.

Quella stessa estate andai a Ibiza. Non trovai Alicia ma mi comprai un paio di gonne lunghe, ricevetti il bacio sognato, anche se un po’ in ritardo, e passai alle Marlboro. L’adolescenz­a è come un edificio di cemento e mattoni, basta solo dipingerla e arredarla e a quel punto ci rendiamo conto che, per quanto imperfetta, è stata meraviglio­sa.

(Nota: l’adolescenz­a di Fran, il protagonis­ta di La meraviglia degli anni imperfetti, mi piace molto più della mia).

( traduzione di Enrica Budetta)

 ??  ?? Bestseller Clara Sánchez (Guadalajar­a, 1955: foto di Benedetta Mascalchi) ha venduto oltre un milione di copie. In Spagna è l’unica ad aver vinto i tre più importanti premi letterari: Alfaguara, Nadal e Planeta. In Italia con il suo primo libro Il...
Bestseller Clara Sánchez (Guadalajar­a, 1955: foto di Benedetta Mascalchi) ha venduto oltre un milione di copie. In Spagna è l’unica ad aver vinto i tre più importanti premi letterari: Alfaguara, Nadal e Planeta. In Italia con il suo primo libro Il...
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 ??  ?? Cristina Lucas (Jaén, Spagna, 1973), Alice (2013, particolar­e dell’installazi­one realizzata per Il Centro di arte contempora­nea dell’Andalusia di Siviglia). L’artista spagnola utilizza l’arma dell’ironia per affrontare le problemati­che dell’attualità....
Cristina Lucas (Jaén, Spagna, 1973), Alice (2013, particolar­e dell’installazi­one realizzata per Il Centro di arte contempora­nea dell’Andalusia di Siviglia). L’artista spagnola utilizza l’arma dell’ironia per affrontare le problemati­che dell’attualità....
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La meraviglia degli anni imperfetti
Traduzione di Enrica Budetta
GARZANTI Pagine 218, €  17,60 In libreria dal 25 febbraio
CLARA SÁNCHEZ La meraviglia degli anni imperfetti Traduzione di Enrica Budetta GARZANTI Pagine 218, € 17,60 In libreria dal 25 febbraio

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