Corriere della Sera - La Lettura
E la ragazzina spagnola si innamorò di un bandito
Una delle maggiori scrittrici spagnole rievoca un’adolescenza piena di insicurezze e condita da amori delusi o sbagliati. La consolavano le poesie di Neruda in borsa. Poi sbocciò e si scoprì forte. Oggi ammette che il protagonista del nuovo romanzo è più fortunato di lei
Credo che molti degli elementi che mi hanno reso quella che sono, dal mio modo di vestire fino al mio modo di vivere, me li abbia ispirati uno dei miei primi miti: Alicia. Era la sorella della mia migliore amica e più grande di me di quasi tre anni. Io quattordici e lei diciassette. Alicia fumava Chesterfield senza filtro. Si portava la sigaretta alle labbra e poi soffiava fuori il fumo con gli occhi socchiusi pensando a cose affascinanti della sua vita meravigliosa. Aveva gli occhi a mandorla, neri e luminosi, le labbra fruttate, come se si fosse ficcata in bocca di colpo una manciata di fragole. Viveva a Ibiza. A volte lavorava in ristoranti, alberghi, chiringuitos, e altre se la cavava stendendo una tenda sopra due rocce, mangiando quello che pescava, e aveva imparato a farsi da sola gli orecchini con le pepite d’oro che trovava tra i sassolini della spiaggia. Sapevo che esagerava ma anche che nei suoi racconti c’era qualcosa di vero e questo mi suscitava una grande malinconia.
Il problema era che non era facile essere come Alicia, bisognava voler fare quello che faceva lei senza concessioni e senza incertezze. Quando andavo a trovare la mia amica a casa, in realtà volevo vedere Alicia e la sua vita adorabile. Le piaceva tutto ciò che era hippy e autentico, lo yoga e la musica reggae. Portava camicie di una stoffa così grezza che si aveva l’impressione che se le facesse da sola su un telaio nascosto da qualche parte in casa, gonne lunghe di cotone increspato, sandali bassi di cuoio fatti a mano, e d’inverno stivali di pelle scamosciata e maglioni ampi e, ovviamente, niente reggiseno o sopracciglia depilate né trucco. E in tutte le stagioni, al posto della borsa, cesti di paglia come quelli di Jane Birkin. I capelli glieli arricciavano la pioggia e la brezza del mare, perciò non doveva mettere piede dal parrucchiere. Diceva che tutte le donne dell’isola erano belle e naturali e che i ragazzi assomigliavano a Jesus Christ Superstar.
Provavo una grande ammirazione per la vita di Alicia, per la sua libertà e le sue grandi avventure. Andava a letto con i ragazzi, fumava spinelli e beveva alcol come un uomo. Mi esortò ad ascoltare Bob Marley nella penombra della sua stanza mentre io immaginavo come doveva essere la Giamaica e mi obbligò a leggere Foglie d’erba di Walt Whitman. Adesso che ci penso, Alicia fu una maestra e magari non mi avesse abbandonato al mio destino in questo mondo senza nord.
Appena potei farlo, comprai un cesto di paglia, dove mettevo il mio pacchetto di sigarette, che mi accendevo con uno Zippo, e i libri del liceo. Cercavo di astrarmi come lei nel fumo e nei piaceri della vita. Ma non era così facile. Bisognava esserci nate così disinvolte, enigmati- che e sicure di sé. E io ero dolorosamente impostata. Non occorre fare altro che dare un’occhiata alle foto di quella lunga epoca. A chi non mi conosce sembro senz’altro normale, ma io so che mi mettevo in posa in modo artificiale, cercando di nascondere i miei difetti e molteplici complessi: magra, piatta, taglio alla maschietta, peli sulle gambe e — perché non confessarlo? — anche sulle braccia. Un vero tormento.
Fino ai quattordici anni soffrivo e piangevo molto e i miei genitori mi guardavano con la coda dell’occhio senza sapere cosa fare. Ero una vera piaga. Credo che piangessi di rabbia perché non ero padrona della mia vita e perché la vita mi ignorava mentre mi arrivava l’eco di Alicia e della sua esistenza intensa. Mi arrivava anche l’eco di Londra. I ragazzi e le ragazze che andavano lì in quel periodo, all’inizio degli anni Settanta, tornavano con i capelli alla David Bowie, collant colorati e vestiti a sacco che arrivavano a metà della coscia. Alcuni si drogavano anche. E io, a Madrid, in una vita grigia, che reprimevo i miei desideri come potevo. Nessuno capisce le emozioni di un quattordicenne, neanche lui stesso. È immerso in un allungamento silenzioso, in una metamorfosi più strana di quella che ci racconta Kafka. Nel mio caso, più mi crescevano le ossa, più mi diminuivano i neuroni. Neuroni piccoli, ormoni grandi, fianchi, seno, mestruazioni. Come avrei potuto non piangere? Perciò leggevo, scrivevo, andavo al cinema, studiavo per obbligo, mi annoiavo e aspettavo il mio momento.
Verso i quindici anni si verificò un cambiamento notevole. Mi feci crescere i capelli e, contravvenendo al parere di Alicia, iniziai a depilarmi. Oggi le adolescenti dispongono di apparecchi per la fotoepilazione in casa e quando compiono diciotto anni i genitori regalano loro un seno nuovo. Allora noi ci rassegnavamo agli strappi della ceretta calda e all’imbottitura nei reggiseni. Oggi hanno cellulare, internet, sono connessi a un mondo insondabile di eterno divertimento. Durante la mia adolescenza la lotta con il mondo era corpo a corpo. Se non volevi essere solo come un cane dovevi uscire di casa, entrare in un gruppo, organizzare «feste» (riunioni innocenti a casa di uno di noi con musica e alcol) dove qualcuno si prendeva regolarmente una sbronza e che finivano regolarmente con una vomitata. Durante una di quelle feste ricevetti il mio primo bacio. Con il tempo ho capito che il primo bacio ti segna per tutta la vita. Se il bacio è splendido, chi lo riceve godrà di un’autostima alta, se invece il bacio è un disastro, la sua autostima sarà nella media. Nel mio caso sarebbe stato meraviglioso se me lo avesse dato il ragazzo che mi piaceva. Ma quello che avvicinò la sua bocca alla mia mi era completamente indifferente. Quello che mi piaceva non si interessò mai a me. E la cosa peggiore era quanto diventavo stupida e innaturale in sua presenza; andavo completamente nel pallone, per cui al rifiuto bisognava sommare la vergogna. Come avrei potuto non piangere? La vita sarebbe stata sempre così?
Ah! Avevo tanta voglia di innamorarmi. Avevo letto Cime tempestose di Emily Brontë e Venti poesie d’amore e una canzone disperata di Pablo Neruda e desideravo con tutto il cuore provare «quello»: il fremito, la mancanza di appetito, il batticuore. E, soprattutto, che lo provassero per me. E a quel punto arrivò lui.
Si chiamava Rafa, era più grande di me di tre o quattro anni e non era come quegli insulsi dei miei compagni di classe né come i miei amici. Sapeva di più della vita e aveva qualcosa del mascalzone e anche fantasia e grande ironia nel raccontare le cose. Iniziammo a frequentarci e si adattò alla mia preferenza per le Chesterfield senza filtro, che comprava lui. Maneggiava un bel po’ di soldi, che non si sapeva dove prendesse. Fatto sta che ci permettevamo ogni genere di lusso: cinema, teatro, gite alla sierra; si comprò un motorino con cui giravamo tutta Madrid. Lui non faceva niente, un corso di pittura, e io saltavo le lezioni dicendo che mia madre era malata di cuore e che dovevo occuparmi di lei. Andavamo al parco e passavamo le ore a ridere e a fare gli stupidi. Mi scriveva lettere d’amore, che mi deludevano un po’ per gli errori di ortografia, una cosa che lo sminuiva ai miei occhi. Iniziò a sminuirlo anche il fatto che a volte si presentava ai nostri appuntamenti con la personalità alterata, come se avesse preso qualcosa. Una
specie di dottor Jekyll e Mr Hyde. In quei momenti iniziò a non sembrarmi più così divertente. Poi però aveva tante attenzioni. Siccome mi piaceva scrivere, mi regalava quaderni fatti a mano con la copertina di stoffa.
Un giorno mi presentò i suoi amici, al tramonto, in una zona isolata vicino al fiume. Giocherellavano con coltelli a scatto scintillanti. Li facevano uscire ed entrare nei manici tra le risate. Credo che io conservassi ancora quella meraviglia dell’infanzia che non giudica, non interpreta, riconosce solo ciò che vede, perciò non mi soffermai sulla faccenda delle armi bianche. E senza rendermene conto mi ritrovai a far parte di una banda giovanile di mezzi delinquenti chiamata «La banda degli occhi neri». Rafa era il capo e mi amava.
Mi aspettava all’uscita di scuola e mi accompagnava dappertutto, a meno che non avesse da fare qualche «lavoretto». A volte ebbi la sensazione che per strada ci seguisse un tizio in impermeabile e mi feci prendere da una leggera paranoia, stavo diventando una fuorilegge.
A sedici anni ero stanca di perdere tempo con quegli svitati e mi presentai a un provino per fare teatro. Mi scelsero. Mi piaceva tantissimo quella nuova vita e mi opprimeva che Rafa la vivesse con me. Si ostinava ad accompagnarmi alle prove e si infuriava quando in scena un attore mi abbracciava o mi baciava. Una sensazione di angoscia mi imbavagliava. Non riuscivo a dimentica- re che lui aveva in tasca un coltello e non mi concentravo, temevo sempre che qualcosa lo disturbasse e scoppiasse un casino. E una sera, mentre andavamo verso casa mia, mi ordinò di non vedere mai più quella banda di burattinai. Gli dissi di lasciarmi in pace e a quel punto lui mi spinse così forte che caddi tra due macchine. La borsa schizzò via e con essa Venti poesie d’amore e una canzone disperata di Neruda, che portavo sempre con me. Rafa era un po’ alticcio o fatto o entrambe le cose, vomitò e sporcò il libro. La prima cosa che feci fu di strappargli la copertina e pulirlo come meglio potei con un fazzoletto, poi mi accesi una Chesterfield con il mio Zippo e gli dissi, soffiandogli il fumo in faccia, che gli avrei restituito via posta tutte le sue lettere, sulle quali avevo segnato in rosso tutti gli errori e le parole scritte male. Mi vergognavo molto di essere stata con lui.
Quella stessa estate andai a Ibiza. Non trovai Alicia ma mi comprai un paio di gonne lunghe, ricevetti il bacio sognato, anche se un po’ in ritardo, e passai alle Marlboro. L’adolescenza è come un edificio di cemento e mattoni, basta solo dipingerla e arredarla e a quel punto ci rendiamo conto che, per quanto imperfetta, è stata meravigliosa.
(Nota: l’adolescenza di Fran, il protagonista di La meraviglia degli anni imperfetti, mi piace molto più della mia).
( traduzione di Enrica Budetta)