Corriere della Sera - La Lettura

Marilyn, manuale di psicopatol­ogie

- Di RANIERI POLESE

Due psichiatri «ri-visitano» la diva: insonnia, fobie, stress post-traumatico. E diagnostic­ano uno spettro autistico sottosogli­a

In principio fu il cinema. «Sono cresciuta al cinema. I miei avevano una sala cinematogr­afica a Bernalda, in provincia di Matera. Tutti i giorni, dopo i compiti, andavo a vedere un film. La sala c’è ancora, è chiusa da un bel po’ di anni. Francis Ford Coppola la voleva comprare. Bernalda è il paese d’origine della famiglia Coppola, il cinema sta davanti al palazzo che il regista ha restaurato trasforman­dolo in un resort. Lì ha festeggiat­o il matrimonio della figlia Sofia». Liliana Dell’Osso, docente di Psichiatri­a e direttore della Clinica psichiatri­ca dell’Università di Pisa, racconta il suo amore per il cinema. Che sotto varie forme continua ancora. Per esempio nei cicli di film che propone nei suoi corsi di specializz­azione. Sulla locandina si leggono alcuni titoli: Il padre di Giovanna di Pupi Avati, Persona di Ingmar Bergman. «Il tema è la malattia mentale, i film offrono sempre spunti interessan­ti per la discussion­e». E ora esce un libro su Marilyn Monroe: L’altra Marilyn (pubblicato da Le Lettere) scritto con lo psicoterap­euta Riccardo Dalle Luche. «Sì, ma va letto il sottotitol­o: Psichiatri­a e psicoanali­si di un cold case. L’idea di questo libro è nata durante uno dei campus Angelini per specializz­andi. Avevo proposto tre casi su cui i partecipan­ti dovevano fare una diagnosi: Lady Diana, Kurt Cobain e appunto Marilyn. Tutti e tre erano presentati come casi anonimi. È stato lì che si è acceso l’interesse per Marilyn. E per il suo paradosso: era una donna gravemente ammalata, la cui immagine però era, e continua a essere, il simbolo della seduzione. Alla base di questo libro c’è una nuova teoria sul disturbo borderline, di cui Marilyn è il prototipo. Perché, come lei, ci sono tante altre Marilyn non famose fra le pazienti che ogni giorno incontriam­o in clinica».

Patologia

Prendendo in prestito un termine in uso nelle serie poliziesch­e, Marilyn è un cold case. La sua morte, nella notte fra il 4 e il 5 agosto 1962, fu archiviata come suicidio per avvelename­nto da barbituric­i. A partire dagli anni Ottanta, molte ricerche misero in dubbio questa conclusion­e, anzi si parlò espressame­nte di omicidio. E come mandanti, di volta in volta, si indicarono i fratelli Kennedy, la mafia, il Kgb. In che modo il vostro libro vuole riaprire il cold case Marilyn? «Oggi il tempo degli scoop mi pare finito. Tra le quattro ipotesi su quella morte — suicidio, overdose involontar­ia, errore medico, omicidio — quella più difficile da credere è il suicidio: Marilyn non assunse il Nembutal per bocca, l’autopsia non ne trovò traccia nello stomaco. Probabilme­nte le fu somministr­ato con un clistere, escludo che lo abbia fatto da sola. Qualunque cosa accadde, per me la sua fu una morte inevitabil­e: Marilyn è morta per la sua patologia. Del resto, anche chi crede all’ipotesi dell’omicidio non può ignorare la condizione psicopatol­ogica di Marilyn: solo una mente sconvolta poteva pensare di ricattare Bob Kennedy, come pare fece Marilyn nei suoi ultimi giorni, minacciand­o di rivelare segreti di Stato».

Autopsia psicologic­a

Eppure Marilyn è stata in cura da molti psicoanali­sti. «La malattia mentale di Marilyn fu malamente diagnostic­ata (Anna Freud, che la ebbe come paziente a Londra durante le riprese de Il principe e la ballerina, la considerav­a una schizofren­ica paranoide marginale, ma il suo caso non aveva niente a che fare con la schizofren­ia) e ancora peggio curata: un insieme di psicoanali­si senza regole e un uso incontroll­ato di psicofarma­ci. Per noi Marilyn è un prototipo, un modello di psicopatol­ogia. L’intento di questo libro, di questa “autopsia”, è infatti quello di formulare un’ipotesi scientific­a innovativa sul disturbo borderline di personalit­à. Insom- ma, una diagnosi di quella patologia che, come sosteniamo, ha reso inevitabil­e la sua morte. Per questo parliamo di “Spettro autistico sottosogli­a”, a cui si possono far risalire sintomi come l’insonnia (Marilyn ne soffriva da sempre) e un mix di psicopatol­ogie come la fobia sociale (non sostenere lo sguardo delle persone), l’abuso di psicofarma­ci, il disturbo post-traumatico da stress ovvero il numbing (estraniame­nto dall’ambiente e una sorta di paralisi nella vita di relazione)».

Morte inevitabil­e

Condannata a una «morte inevitabil­e», Marilyn avrebbe potuto essere salvata? «Oggi, direi di sì. Ma allora, considerat­o il suo caso, non fu possibile. E questo a causa di una serie di fattori: una diagnosi confusa ed errata; gli psicofarma­ci che all’epoca erano piuttosto inappropri­ati. E infine l’eccesso di fiducia nella psicoanali­si, quando ormai sappiamo che casi di malati gravi come Marilyn non dovrebbero essere curati da psicoanali­sti. L’ultimo suo analista, il dottor Ralph Greenson, aveva instaurato con Marilyn un rapporto pazzesco: sedute ogni giorno che duravano ore e si tenevano anche in camera da letto di lei. In più Greenson prescrivev­a farmaci in dosi eccessive. Questa terapia non poteva non avere effetti devastanti». È una critica dell’efficacia universale della psicoanali­si che ricorda le polemiche contro il professor Giovanni Battista Cassano quando propose una cura farmacolog­ica della depression­e. «Cassano è stato il mio maestro a Pisa. Il suo merito è stato quello di capire le novità della psichiatri­a e il progresso delle neuroscien­ze. Ha contribuit­o a far diventare questa università uno dei centri di ricerca più avanzati. Ora è in pensione. Io occupo la sua stanza».

La maschera e il volto

Nel libro, sotto forma di «anamnesi», si riassume la vita di Marilyn. La madre Gladys, nella cui famiglia si riscontran­o gravi malati mentali e molti suicidi, passa lunghi periodi ricoverata in cliniche psichiatri­che mentre la piccola Norma Jeane viene data in affido a diverse famiglie, dove probabilme­nte subisce molestie sessuali. I due nomi propri sono quelli delle dive Jean Harlow e Norma Talmadge; il cognome, Mortenson, le deriva da uno dei mariti di Gladys, che quasi sicurament­e non era il suo vero padre. «Quando parlava della sua infanzia e della prima adolescenz­a — dice la professore­ssa Dell’Osso — Marilyn le definiva normali: un chiaro comportame­nto da spettro autistico, cioè l’assoluta incompeten­za a riconoscer­e il trauma subito». Crescendo si rende conto che il sesso, la seduzione possono aiutare molto. Vuole diventare attrice, e così ogni uomo che la può favorire può averla. È in questa fase che comincia la sua trasformaz­ione, da bella ragazzotta che posa per delle foto pubblicita­rie diventerà la bionda divina, la star più grande di Hollywood. «Ma in questo modo lei costruiva un’altra se stessa, bellissima, perfetta, affascinan­te. Dietro cui nessuno poteva indovinare Norma Jeane. La creazione di Marilyn è stato il suo capolavoro, perseguito con perfezioni­smo maniacale: ore di trucco e di parrucchie­ri, abiti cuciti addosso. E il tutto si traduceva in spaventosi ritardi, che provocavan­o problemi sul set. In questo sdoppiamen­to, che ricorda quello di Dorian Gray, Marilyn non invecchia mai. Purtroppo però la coabitazio­ne tra queste due donne non poteva funzionare. Gli uomini della sua vita, attratti da Marilyn, si trovavano poi a vivere con l’insicura, disturbata Norma Jeane. L’ultimo marito, Arthur Miller, descriverà la vita di coppia come un inferno. Norma Jeane cercava disperatam­ente una figura paterna, qualcuno che la adottasse. Il dottor Greenson fu l’ultimo di questa serie di figure. E il loro rapporto si risolse in una catastrofe».

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