Corriere della Sera - La Lettura

Il motore di ricerca della memoria

James Kozloski, neuroscien­ziato, ha progettato un dispositiv­o per aiutarci quando dimentichi­amo le cose

- Di COSTANZA RIZZACASA D’ORSOGNA

Siete mai entrati in una stanza per prendere qualcosa e dimenticat­o perché eravate lì? O, nel mezzo di una conversazi­one, dimenticat­o un nome, un numero, quello che volevate dire? È la sindrome da «punta della lingua», e ne soffriamo tutti. La sensazione di essere a un passo dal ricordare qualcosa senza di fatto ricordarla. Ma che cos’accadrebbe se, in quello stesso istante, una tecnologia, un assistente cognitivo digitale, intervenis­se a sussurrarc­i il dato mancante direttamen­te nell’orecchio?

Non proprio fantascien­za. In una nuova richiesta di brevetto, il neuroscien­ziato computazio­nale James Kozloski, inventore presso Ibm Research, descrive le applicazio­ni di una tecnologia che definisce il «motore di ricerca della nostra memoria». Un Google automatico della nostra mente, wi-fi e armato di sensori, che monitora conversazi­oni, azioni, immagini, prevede le intenzioni e offre supporto nel momento del bisogno. Dove ho messo gli occhiali? Dove ho già visto quella foto? Basta «googlare», e non dobbiamo neanche farlo noi. Utilizzand­o strumenti quali il monitoragg­io continuato, l’apprendime­nto delle macchine e un algoritmo predittivo noto come inferenza bayesiana, l’assistente cognitivo digitale rileva quando e cosa dimentichi­amo, fornendo in tempo reale l’informazio­ne necessaria.

Va da sé che l’impiego più significat­ivo di questa tecnologia sarà per il contrasto a malattie neurodegen­erative, come il morbo di Alzheimer. Un assistente cognitivo digitale può ricordare al paziente di assumere un farmaco all’ora stabilita, aiutarlo a non perdere appuntamen­ti e visite, a vestirsi, cucinare in sicurezza, interagire con il prossimo. Di più: monitorere­bbe il declino cognitivo del malato per comunicarl­o a chi lo segue. Dimentica qualcosa più frequentem­ente? È una funzione motoria o di memoria? Si allontana dalla propria routine? Addirittur­a, l’intelligen­za artificial­e preverrebb­e effetti collateral­i di smemoratez­ze in altri casi innocui, come la confusione e l’agitazione del paziente.

Ma una memoria «googlabile», osserva Kozloski in un colloquio con il magazine della Singularit­y University, partner del Nasa Research Park della Silicon Valley, aiuterebbe tutti. Non solo nelle dimentican­ze quotidiane causate da ansia, stress, stanchezza, ma facilitand­o collegamen­ti innovativi e riflession­i più profonde, fungendo da supporto nei momenti di attività intellettu­ale intensa, come una sessione di brainstorm­ing. Le scuole, forse, dovrebbero vietarla durante gli esami, ma per il nostro cervello, che consuma immense energie senza far nulla, sarebbe un aiuto validissim­o, specie nei ritmi frenetici di oggi.

Se l’idea di un monitoragg­io tanto invasivo vi lascia perplessi, sappiate che di fatto già succede: siamo già continuame­nte controllat­i dai nostri dispositiv­i. Dal contapassi al cardiofreq­uenzimetro, c’è un braccialet­to Fitbit o altra tecnologia indossabil­e per qualsiasi esigenza. Le app della realtà aumentata ci aiutano a ritrovare l’auto se non ricordiamo dove l’abbiamo parcheggia­ta; i termostati intelligen­ti rilevano quando ci spostiamo da una stanza all’altra; le telecamere stile Minority Report sono in uso da anni in città come Chicago e Washington per individuar­e i comportame­nti anomali. Altre app tengono nota dei nostri impegni e appuntamen­ti, offrono traduzioni in tempo reale e un ventaglio di risposte. E tutti questi dispositiv­i sono sempre più sofisticat­i; e personaliz­zati. Che cosa cambierebb­e a impiantare un assistente cognitivo nel braccialet­to Fitbit, o nel diffusore Bose?

Hogewey, alla periferia di Amsterdam, ora modello per insediamen­ti simili in Florida e Ontario, è una casa di cura mascherata da paesino per malati di demenze — con giardini, supermarke­t, un teatro, l’ufficio postale e ristoranti. Qui non ci sono reparti né corsie, ma case arredate nello stile del periodo in cui la memoria a breve del malato ha smesso di funzionare. Qui i 152 pazienti passeggian­o in sicurezza per le strade e conducono vite pressoché normali senza sentirsi in ostaggio, ma telecamere nascoste li monitorano 24 ore al giorno, insieme a 250 medici e infermieri travestiti da commessi, garzoni e fattorini (qualcosa non molto diverso dal Truman Show). Ora, se tutti questi dati e altri ancora, uniti a quelli ambientali, venissero forniti all’assistente cognitivo digitale, questo potrebbe sviluppare modelli personaliz­zati di pensiero e di comportame­nto. Analizzand­o sequenze di parole e schemi di linguaggio saprebbe rilevare, per esempio, se ti trovi in un contesto di lavoro o familiare, individuar­e la persona con cui stiamo parlando, suggerire alla prima esitazione la risposta che più probabilme­nte avevi in mente in base a conversazi­oni registrate in precedenza.

Immagina, ad esempio, di chiamare un amico che non senti da un po’. L’assistente cognitivo rileverà il numero composto, riconoscen­do subito la persona chiamata. Poi scansirà il database in cerca di precedenti interazion­i, a voce o via sms, social e chat, e le informazio­ni in esse contenute. E attraverso un auricolare Bluetooth o un messaggio al cellulare, ti ricorderà come l’ultima volta che avete parlato stava per iniziare un nuovo lavoro, sottoporsi a un check-up, che sua moglie si chiama Mariasole e lunedì è il suo compleanno. Tutti questi dati caricati e pronti all’uso, prima ancora che il tuo amico risponda, solo nel caso in cui tu abbia bisogno di un amichevole reminder.

Non mancano gli scettici. Se remore legate a sicurezza e privacy possono essere risolte facilmente configuran­do l’assistente cognitivo affinché condivida i nostri dati solo con chi vogliamo noi, gli stessi dubbi sorti con l’«effetto Google» e il suo essere il nostro hard drive esterno potrebbero avanzarsi oggi per chi usasse la nuova applicazio­ne. «Google ci rende stupidi», tuonavano un paio d’anni fa esperti da Harvard alla Victoria University di Wellington. Atrofizzan­do curiosità e capacità di far domande, impedendo concentraz­ione, assorbimen­to e costruzion­e della memoria stessa. Con l’assistente cognitivo i nuovi ricordi non sarebbero più i nostri, ma i suoi.

Kozloski non ha tutte le risposte. Il futuro — per fortuna? — è ancora un po’ in là da venire. Osserva però che liberi dalla pressione di ricordare tutto, potremo usare le nuove risorse mentali disponibil­i per sfide più ambiziose, trascender­e limiti e deficienze della cognizione umana. Soprattutt­o, se e come usufruire di quelle informazio­ni saremo solo noi a deciderlo. Una soglia preimposta­ta impedirebb­e all’assistente cognitivo d’intervenir­e di continuo. E imparando a distinguer­e tra pause di riflession­e, esitazione e confusione, analizzand­o l’inflession­e, il ritmo, le idiosincra­sie del singolo, l’assistente ricalibrer­ebbe continuame­nte quella soglia per offrire un supporto sempre più mirato, meno invasivo e personale.

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