Corriere della Sera - La Lettura
La «stranieritudine» dell’esiliata sedotta dalla bellezza della lingua
Radiosa era apparsa la terra straniera alla mamma impaziente di approdare in un Paese libero e baciato dal sole dell’avvenire. «Quanta luce!» l’aveva sentita esclamare la figlia che invece osservava le falene ronzare eccitate — proprio come sua madre — attorno ai lampioni prima di restarvi attaccate, dimenarsi qualche attimo e cadere bruciate sulle strade linde. Non proprio una visione beneaugurante. Colei che vi assiste presaga non ha un nome fino alla fine del libro. Ha un cognome reso impersonale dai burocrati addetti all’accoglienza, ma anche senza «ali e tettucci», senza accenti acuti e circonflessi, senza la femminile vocale finale, si riconosce vicino a quello dell’autrice ceco-svizzera del libro: Irena Brežná. In compenso ha una voce talmente intima e calda che per l’intera lettura sembra di sentirla parlare all’orecchio. Parla tedesco (tradotto per Keller con talento da Scilla Forti, pagine 156, € 14,50): lingua acquisita da adulta per lei che era accordata su sonorità slave. Lingua di testa: «La sua cassa di risonanza non riempiva tutto il mio corpo come la madrelingua». Eppure sorprendente tanto da diventare «la più grande avventura dell’esilio». Nella nuova patria, la Svizzera, mai nominata e fin troppo riconoscibile, Irena fa l’interprete per i profughi come lei venuti dall’Est. Impara traducendo a spiegarsi stranezze e freddezze dei nuovi connazionali, che preferivano un no secco a un delicato forse, che tenevano il tempo al guinzaglio corto, e attutivano la cruda radicalità del ti amo con un innocuo mi piaci («si usa anche per il müsli»). Infine — gelosa e orgogliosa della propria «stranieritudine» — nella nuova lingua traduce anche se stessa: per dire, in un tedesco scintillante di ironia, perché mai oggi non è più una Straniera ingrata.