Corriere della Sera - La Lettura
Fuga (fallita) dal secolo breve
Il titolo di Christophe Palomar, che inaugura le pubblicazioni della nuova Libreria Utopia Editrice, solo apparentemente si presenta come una convenzionale storia di gusto mitteleuropeo. Il segreto sta nello stile: sia per il protagonista, Joachim, sia per l’autore
Splendido esordio è Frieda. Un’educazione sentimentale del Novecento, opera prima di Christophe Palomar e pubblicazione inaugurale della neonata Libreria Utopia Editrice, costola della storica libreria Utopia di Milano. Lo si legge con abbandono riconoscente: la diffidenza iniziale per un romanzo che fin dalle prime battute confessa il suo argomento convenzionale (un protagonista dotato ma inetto, un Bildungsroman mitteleuropeo affidato al vetusto artificio del manoscritto ritrovato) si dissipa subito in virtù di una scrittura che genera continue sorprese tramite lievi spostamenti d’accento, incrinature dello sguardo, calibratissimi arresti del ritmo e del respiro. Ma cattiva critica sarebbe dire che lo si raccomanda per lo stile più che per la storia; vero è invece che quello stile esigeva quella storia più che non quella storia quello stile.
Il romanzo è diviso in tre parti. Le prime due raccolgono il monologo, trascritto da un anonimo interlocutore, in cui Joachim von Tilly, undicesimo discendente del grande condottiero della Guerra dei Trent’anni, racconta la sua vita. La terza, più breve, è la replica dell’interlocutore, suo figlio naturale mai riconosciuto che morirà tra- gicamente di lì a poco (nessuno spoiler, è tutto anticipato nell’incipit, Frieda non punta certo le sue carte sulla suspense). La traiettoria di Joachim, nato a fine Ottocento, colto rampollo di una famiglia di magnati dell’acciaio e poi esule squattrinato in Argentina, è il risultato di una doppia tensione. Tutto fuori di lui (nascita, educazione, ricchezza, spirito del tempo) è predisposto per proiettarlo al centro della scena. Ma tutto dentro di lui cospira oscuramente per uscirne: amori sfiorati, responsabilità familiari e politiche subìte, prese di posizione che non scaturiscono da una scelta ma da un corso delle cose che si può solo assecondare o rifiutare, non guidare.
Si tratti dell’Hannover della sua infanzia; della Capri dove conosce Frieda von Richthofen, cugina del famoso Barone Rosso e moglie orgiastica di D. H. Lawrence, con cui intreccia un amore a distanza mai esaurito perché mai esaudito; della Vienna della Secessione, dove diventa amico di Egon Schiele e di Oskar Kokoschka, o della Berlino prima e dopo il crollo del Reich, dove ha il privilegio di godere della confidenza di Walther Rathenau, Joachim non è mai davvero al suo posto. Osserva, interroga, commenta, si innamora ma non consuma o se consuma non convola: il grande amore del- la sua vita sarà una contadina da cui avrà un figlio ma che non lascerà mai il marito per lui. Il cognato gli soffia il posto nell’industria di famiglia (ottimo affare l’acciaio nella bellicosa Germania guglielmina e poi nazista!) e lui non gli si oppone sul serio. Ciò che lo domina è una passione senza appartenenza, il Novecento delle ideologie e dei conflitti ha trovato in lui la sua palinodia. Lascia l’Europa come amante mancato e imprenditore rovinato, ma non è per questo che parte. Perché lo faccia, perché abbandoni, ben prima dell’ascesa di Hitler, una Germania cui non può aderire e che gli si offre come uno spettacolo sinistro, grandioso ma inappropriabile, non è chiaro né a lui né al lettore.
Tra prima parte, in cui si narra la sua vicenda tedesca, e la seconda, dedicata al suo autoesilio argentino, si apre un bianco, un vuoto, un intervallo di silenzio che sconnette azione e motivazione. In Argentina, invece, Joachim è a suo agio ovunque vada. Si orienta fin dall’arrivo, trova lavoretti (interprete, insegnante privato, bibliotecario), si fa bastare i soldi, chiacchiera con i conoscenti, invecchia senza crucciarsene, sposa una ragazza meticcia che muore dopo aver perso un bimbo ancora in grembo. Ricorda, rievoca, rimpiange anche, ma non più di quanto già non lo facesse in Germania: ha risolto al ribasso il problema della felicità, quella felicità su cui il suo secolo aveva imposto un prezzo troppo alto: decidere, schierarsi, dichiararsi, prendere parte alle vittorie e alle sconfitte, personali e collettive. Non è questo il destino di Joachim, non è questo il suo stile.
Già, lo stile. Nello stile è il segreto, la cifra della vita di Joachim. Si considerino frasi come questa: «Mi ammalai come si manca un gradino, abbandonando senza preavviso il mio corpo a una vecchia conoscenza, la polmonite». O questa: «Se ne andava senza salutare e senza preavviso, se ne andava come un quadro che cade, con un colpo secco». O questa ancora: «Era ciò che la Germania mi offriva di più bello, era l’istante della rottura, un coltellaccio spietato offerto a chi voglia suicidarsi». L’iniziativa è tutta dalla parte delle cose, mai degli esseri umani. O questo giudizio, sui nazisti e su tutto il secolo breve: «Pensai che questa gente non avrebbe lasciato alcuna traccia, se non nella carne delle loro vittime, che i morsi di questo nostro tempo infame non avrebbero lasciato traccia se non nella carne della sue vittime».
Invano, nella terza parte, il figlio nato povero, illegittimo, traumatizzato dalla guerra, gli domanda perché. Perché non avete lottato per mia madre o per Frieda? Perché avete lasciato l’Europa in mano ai suoi macellai e me alla mercé dell’ingiustizia e dell’orrore? Troppo tardi, Joachim si è assopito, anche l’ultimo incontro è mancato. E poi cosa avrebbe potuto rispondere — e se non lui l’autore — se non che quello stile esigeva quella vita? Uno stile che è riscatto e insieme la peggiore delle colpe, come già in un’altra Educazione sentimentale, quella di Flaubert: la bellezza che non salva il mondo, lo condanna additando la sua imperfezione. Joachim è finito in grembo a ciò da cui fuggiva. Ma il suo creatore è stato così spietato (artisticamente spietato, cioè avveduto) da risparmiargli la consapevolezza, il pentimento, il castigo.