Corriere della Sera - La Lettura
Un padre buono è peggio del padre padrone
Per Simone Giorgi tutto si rompe all’improvviso nell’equilibrio di un capofamiglia
L’ultima famiglia felice, l’ultima volta che è stata felice. La racconta Simone Giorgi, romano, autore televisivo nato nel 1981, in un romanzo d’esordio (segnalato con una menzione speciale al premio Calvino 2014), che mette in scena una giornata del 2003 in cui niente succede ma tutto si rompe. Insieme con il doppio vetro della camera da letto del tredicenne Stefano, centrato da una pallina da tennis scagliata con rabbia, si infrange la certezza di un padre, Matteo Stella, fino ad allora ignaro del fatto che la strada verso l’inferno famigliare è lastricata delle migliori intenzioni.
Tutto va bene — pensa il capofamiglia — se a fine giornata puoi metterti a tavola, avere del cibo buono in una casa bella e una famiglia che ti ascolta, sorride con te degli eventi della giornata, con te si prepara al domani. È lui l’angelo del focolare di questo nucleo apparentemente moderno e tollerante, cementato dall’affetto, dove la madre, Anna, è una donna in carriera, femminista, ex contestatrice, titolare di un’agenzia di pubblicità che ha avuto successo senza piegarsi alle leggi maschiliste del marketing a base di donne nude e ammiccamenti sessuali. Eleonora, la figlia maggiore, liceale, adora il padre, è brava a scuola, comprensiva, affettuosa, libera e responsabile, innamorata di Lorenzo detto il Canaglia. Stefano è fragile, con un piede nell’infanzia e l’altro affondato nella ribellione cieca dell’adolescenza, ignorato dalla ragazzina di cui è innamorato, vive asserragliato in camera, rischia di non essere ammesso all’esame di terza media e ha deciso di odiare il padre. Lui, Matteo, è un informatico, bravo anche a non sembrare perfetto, che ha messo da parte le sue ambizioni, che crede nel dialogo, nella tolleranza, nella comprensione, capace di superare il tradimento della moglie con il collega di lavoro, di accettare i rifiuti e le intemperanze del figlio senza alzare mai la voce.
Che dietro le apparenti normalità famigliari si nascondano incomprensioni e spesso efferatezze è tema ampiamente battuto dalla letteratura che da quello stagno di buoni e cattivi sentimenti ha tratto linfa narrativa. Qui non si tratta, però, di ipocrisia, di nascondere la polvere sotto il tappeto delle buone maniere, di presentare alla società la faccia migliore. A oscurare al protagonista la realtà dei fatti è proprio il voler credere che tutto vada bene, che fare del proprio meglio basti, che non ci si sia mai spostati dall’entusiasmo, dagli slanci, dalle tenerezze di una volta.
La messa in scena di Simone Giorgi ha i tempi giusti di una buona sceneggiatura televisiva. La scrittura precisa, senza fronzoli, piana quando racconta la banalità del bene dei giorni passati, è capace di impennate emotive nei momenti più drammatici, quando l’equilibrio si rompe e anche il mansueto protagonista viene colpito dall’onda d’urto degli eventi. La sua magnanimità, la sua disposizione a capire sempre tutto e tutti (che non è ingenuità né inconsapevolezza) suscitano sensi di colpa nella moglie e nei figli, diventando un motivo di risentimento più forte dell’autoritarismo del padre padrone.