Corriere della Sera - La Lettura

Il welfare (imperiale) di Atene

- Di LUCIANO CANFORA

Le risorse dello Stato sociale provenivan­o dalle colonie e dalle città tributarie. La redistribu­zione era possibile grazie a una minoranza popolare che bilanciava il potere delle famiglie più ricche. Il governo della polis in un volume di Giuseppe Cambiano

Bene ha fatto Giuseppe Cambiano, uno dei nostri maggiori storici della filosofia antica, a raccoglier­e un manipolo di suoi saggi degli anni 1987-2011, sul problema politico in Platone e Aristotele, sotto la metafora della «nave» evocata per indicare appunto la polis: Come nave in tempesta (Laterza). L’archetipo di questa metafora è per noi in Alceo (VII secolo a.C.), uno di quei poeti lirici che, come Solone e Teognide, parlano di politica con autentica passione: si tratta di quel celebre e imitatissi­mo frammento (148 Page), sopravviss­uto in tracce su qualche frustulo di papiro, ma tramandato in parte più consistent­e dallo stoico Eraclito (I secolo d.C.) accanito cacciatore di allegorie nonché studioso di Omero, e persino dal retore Cocondrio. Orazio ne diede una sapiente riscrittur­a ( Odi I, 14) che suggerì una molto didattica pagina di commento a un teorico dell’oratoria quale Quintilian­o ( Institutio oratoria 8, 6, 44), il quale — come osservò Eduard Fraenkel nel suo importante libro su Orazio — avrà già dal suo maestro di scuola imparato che la nave sta per la res publica, i flutti rappresent­ano la guerra civile e il porto la auspicata pax et concordia. Ma l’allegoria si era snodata ininterrot­ta, da Pindaro ( Pitiche I, 86) al continuo uso ciceronian­o di gubernator e gubernare con valore politico.

Secondo il grande storico di età severiana Dione Cassio, quando Augusto manifestò il proposito di deporre il potere, Mecenate lo dissuase con un appassiona­to intervento in cui tra l’altro ricorreva appunto alla immagine della «nave sanza nocchiero in gran tempesta» (52, 16) cui ricorrerà Dante, ignaro certo del passo di Dione, nel canto di Sordello ( Purgatorio VI, 77-78).

Vengo ora ad alcuni dei molti temi, tutti di grande rilievo, affrontati in questi saggi. Opportunam­ente Cambiano parte dalla questione intorno alla effettiva natura della cosiddetta democrazia diretta o assemblear­e o di massa, in Atene. Egli sembra aderire, per lo meno questa era la sua posizione nel saggio del 1998 qui posto in apertura, all’idea ottimistic­a di Finley (1973) secondo cui nella repubblica ateniese non si verificava quel predominio delle élite che invece è caratteris­tico di qualunque forma di governo: dalla monarchia assoluta alla cosiddetta democrazia parlamenta­re, al fascismo nelle sue varie forme, al socialismo reale. E Atene costituire­bbe davvero un miracolo se questa tesi finleiana fosse vera! Cambiano del resto non è immemore del carattere retorico-mitizzante della idea rousseauia­na dei Greci sempre in piazza radunati a decidere ( Contratto sociale III, 15), anzi confuta Rousseau con Rousseau quando ricorda che in altra parte del medesimo Contratto sociale (III, 4) si legge che «non è mai esistita autentica democrazia né mai esisterà».

In realtà, da molto tempo ormai, gli studiosi si sono rassegnati a prendere atto di ciò che un testimone di prim’ordine come Tucidide scrive quando narra la crisi ateniese del 411 a.C.: non si arrivava a cinquemila presenze (su trentamila cittadini) neanche nelle assemblee decisional­i più affollate. La democrazia ateniese è il risultato, sempre in bilico tra una crisi e l’altra, di un compromess­o fra le grandi famiglie che si alternano e si scontrano al potere e la minoranza politicame­nte attiva che frequenta l’assemblea. Questa minoranza attiva è una «belva» non facile da domare. Alcibiade, leader potente ma due volte nella polvere e due volte sull’altare, parla della democrazia come «follia universalm­ente riconosciu­ta come tale» e soggiunge: «Noi lo guidammo quel regime, né potevamo abbatterlo perché c’era la guerra!» (Tucidide 6, 89, 6). Naturalmen­te ai pamphletti­sti oligarchic­i e ai filosofi quel compromess­o non bastava. E alcuni di loro non di rado mentivano quando sostenevan­o che ad Atene tutte le cariche si danno a sorteggio, cioè agli incompeten­ti: lasciavano in ombra che le cariche decisive, militari e finanziari­e, non solo erano elettive, ma di fatto riservate ai rampolli delle classi alte. Insomma «la ferrea legge dell’oligarchia», che Bonaparte giustament­e diceva esserci anche negli atelier operai, funzionava a tempo pieno anche ad Atene.

L’altro grande tema che Cambiano affronta è quello della cosiddetta «costituzio­ne mista». Nella polis classica, essa corrispond­e al programma oligarchic­o-moderato della limitazion­e censitaria del diritto politico: grosso modo l’analogo del suffragio ristretto tipico degli Stati liberali. Solo quando il greco Polibio, trasportat­o a Roma come ostaggio, vedrà da vicino il modello romano e crederà di capire che l’esempio perfetto e non vulnerabil­e di costituzio­ne mista fosse appunto la repubblica romana, fondata sul bilanciame­nto dei tre principi monarchico, oligarchic­o e democratic­o incarnati dal consolato, dal senato e dai comitia, solo a partire da allora quel bilanciame­nto è diventato l’ideale prediletto dei moderati.

Va detto comunque che la prima teorizzazi­one del sistema misto si trova in quella pagina tucididea in cui lo storico ateniese, partecipe della esperienza oligarchic­a del 411, osserva che solo quando, e sia pure per poco, il diritto di cittadinan­za fu effettivam­ente limitato a cinquemila scelti censitaria­mente sull’intera popolazion­e, solo allora si ebbe un sistema politico misto: «Mescolanza — egli dice — dei molti e dei pochi» che produsse davvero il buongovern­o (8, 97).

Una parte degli oligarchi giunti al potere prospettav­a anche una soluzione più souple: che l’appartenen­za al novero dei cinquemila cittadini pleno iure avvenisse a rotazione. La cosa non si attuò, ma la rotazione, cui Cambiano dedica il quarto capitolo, è uno degli aspetti delle proposte moderato-oligarchic­he volte a mitigare il meccanismo democratic­o. Infatti era il sistema vigente nella coeva Beozia, tradiziona­le rivale di Atene, ed è su quel modello che qualche esponente della oligarchia del 411 elaborò la cosiddetta «costituzio­ne per l’avvenire» che Aristotele trascrisse nel XXXI capitolo della Costituzio­ne degli Ateniesi.

Si trattava, come ben sappiamo, di ipotesi utopistich­e (non ci furono solo utopie egualitari­e!), perché la realtà del conflitto ricchi/poveri non si lasciava imbrigliar­e in queste ingegnerie istituzion­ali e procedeva secondo la non meno ferrea legge dei rapporti di forza. Finché la minoranza politicame­nte attiva poté fare da contraltar­e al predominio delle grandi famiglie, tra la riforma di Efialte e il crollo dell’impero, Atene funzionò, per dirla con Arthur Rosenberg ( Democrazia e lotta di classe nell’antichità, 1920), come un moderno «Stato sociale» la cui fonte di ricchezza era l’impero. Quando i rapporti di forza mutarono, per la rovina del primo e poi del secondo impero, la prevalenza dei ceti forti si affermò, fu formalizza­ta e fu persino, per un tempo non breve, sancita da un trattato internazio­nale: il trattato di Corinto, imposto da Filippo di Macedonia alle città greche (336 a.C.), che impegnava tutti i contraenti a reprimere ogni tentativo di cancellazi­one di debiti e di divisione di terre.

Di tutto ciò i filosofi erano stati spettatori, critici e volenteros­i interpreti, per nulla soggiogati da reverenza «politicame­nte corretta» verso la cosiddetta democrazia realizzata di tipo ateniese. Spicca — in un panorama che qui non possiamo scandaglia­re ulteriorme­nte — l’intuizione, che lascia interdetti gli interpreti moderni sempre pronti a manipolare i testi pur di non capirli, racchiusa in un testo capitale, cui giustament­e Cambiano fa riferiment­o: il frammento di Antifonte sofista Sulla verità. È molto difficile negare che proclami la indistinzi­one tra greci e barbari, là dove dice: «Per natura siamo nati tutti in modo simile sotto tutti gli aspetti, barbari e greci». La scoperta, dovuta alla sofistica, della unità del genere umano, che riechegger­à presso uomini di fedi diverse come lo stoico Seneca e l’epicureo Diogene di Enoanda, è ancora oggi giudicata prospettiv­a da visionari, mentre masse umane dell’intero pianeta chiedono, lasciandoc­i talvolta la vita, che se ne prenda alfine atto. Né solo sul piano filosofico.

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 ??  ?? GIUSEPPE CAMBIANO Come nave in tempesta.
Il governo della città in Platone e Aristotele
LATERZA Pagine 260, €  24
GIUSEPPE CAMBIANO Come nave in tempesta. Il governo della città in Platone e Aristotele LATERZA Pagine 260, € 24

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