Corriere della Sera - La Lettura
Il fumo diventa la pipa Le metamorfosi di Raetz
Tecnico appartato, umanista sperimentatore e citazionista ironico plasma forme mutanti a seconda della prospettiva: la stessa testa è di Mussolini e di un dipinto di Piero della Francesca
L’artista bernese viene celebrato al Lac di Lugano, i cui spazi «immateriali» dialogano con le opere esposte
Niente è mai come appare. E persino questo lago grigio e silenzioso potrebbe sembrare addirittura un mare d’inverno, per quanto piccolo e affossato dalle montagne. Attraverso le ampie vetrate del Lac, il nuovo centro di arte e cultura inaugurato a Lugano appena lo scorso settembre, l’illusione di un orizzonte ben più ampio e «diverso» si ripresenta continuamente (in fondo basta soltanto un’altra nuvola che passa sul lago).
Dunque anche qui, ancora una volta, niente è come appare. Tantomeno nelle grandi sale al primo piano della struttura progettata dall’architetto Ivano Gianola che adesso ospitano la mostra curata da Francesca Bernasconi che il Masi (il Museo d’arte della Svizzera italiana) dedica fino al 1° maggio a Markus Raetz, l’artista bernese (classe 1941). Come spiega il direttore del Masi Marco Franciolli, «è stato come pochi altri capace di sviluppare uno straordinario percorso creativo incentrato sulla relazione fra l’opera e chi la guarda». Alla costante ricerca, dunque, di «un’altra prospettiva per
osservare il mondo». Quelle che il visitatore ritrova tra queste pareti bianchissime non sono mai «semplici» foglie di eucalipto o cannocchiali, pacchetti di sigarette o teste scolpite: sono sempre e comunque qualcosa di diverso, basta solo cambiare la prospettiva, basta solo essere alti un metro e novanta invece che uno e sessanta e tutto cambia.
Sopra un piedistallo c’è, ad esempio, Hasenspiegel (1988-2000), un’installazione di Raetz che all’apparenza potrebbe sembrare solo una lepre in filo di ferro galvanizzato che si riflette in uno specchio. Divertente, ironica, ma niente di più. Basta spostarsi di pochi passi, però, e quella lepre si trasforma come per incanto nel profilo di Joseph Beuys (1921-1986), o meglio nel suo cappello, una citazione assolutamente non casuale che si rifà a una celebre performance dell’artista tedesco ( Explaining pictures to a dead hare del 1997) in cui Beuys teneva appunto tra le braccia una lepre morta.
La stessa sorpresa riserva anche un giro intorno a un’altra delle opere esposte al Lac, nella stanza che conclude il percorso espositivo e che occupa quella sorta di prora di nave lanciata verso il lago che è forse l’elemento più caratteristico dell’architettura del museo: stavolta il lavoro si chiama Kopf 1 (1992) ed è una scultura in ferro che, a seconda dell’angolazione dello sguardo, può ricordare la testa di Mussolini di Renato Giuseppe Bertelli ( Profilo continuo del Duce, 1933) o uno dei profili che si intravedono nei quattrocenteschi affreschi della Leggenda della Vera Croce di Piero della Francesca.
Perché Markus Raetz, forse ancora non sufficientemente conosciuto in Italia, è un’umanista malato di sperimentazione. Una specie di tecnico che utilizza materiali e procedimenti di ogni genere (rame e lamiera, acquatinta e xilografia, bulino e timbri di caucciù). Nonché un intellettuale che nel suo rifugio (l’«ultimo» studio si trova oggi a Berna) è stato capace di coniugare la lezione dell’arte concettuale e quella, appunto del nostro Rinascimento (numerosi i suoi viaggi in Italia). Ma Raetz è stato capace di mettere insieme anche il fascino della cultura alta (la psicoanalisi come la matematica) a quella più rock, senza timore di poter apparire fin troppo low profile. Un viaggio, il suo, da uomo libero e senza tanti condizionamenti, testimoniato soprattutto dai suoi taccuini: veri e propri carnet de voyage che lui ha chiamato Die Bucher e sui quali quotidianamente vengono annotate idee, disegni, schizzi attorno alla realizzazione di oggetti e sculture in pietra. E dove si ritrovano affiancati il profilo di Mickey Mouse e profonde riflessioni sul significato dell’arte. E se, da una parte, spunta il suo desiderio di ritrovare lo spirito di Maurits Cornelis Escher e di Hieronymus Bosch, dall’altra in certi profili realizzati su carta occhieggia evidentemente l’anima pop di Raetz, che spazia da Andy Warhol in poi (tra le opere c’è anche una Marilyn del 1976 stampata con spago inchiostrato).
Ancora una volta, dunque, niente è come appare. Nichtrauch (fusione in ferro del 1990) non è così solo la citazione della pipa di Magritte, ma a secondo della prospettiva, la parte superiore può rivelarsi il fumo e quella inferiore l’oggetto «vero e proprio». O viceversa. Mentre le due statue di «yes» e «no» che compongono Crossing (2002) viste da un’altra angolatura possono svelare la possibilità di un «forse».
Attorno a lui lo spazio del Lac appare (giustamente) inesistente. Perché non ci possono essere certo limiti all’immaginazione di Raetz (la sua grande modernità si ritrova in certi piccoli oggetti quasi da design come Main-tenant, 1970-2013, uno dei simboli dell’esposizione). La realtà quotidiana di quest’artista, isolato con premeditazione, da sempre sembra voler sfuggire da ogni possibile gabbia: non ha telefono cellulare, non è animato da fretta e nemmeno da esigenze di mercato o dalle mode (nel 1988 la sua opera era stata scelta, comunque, per rappresentare la Confederazione nel Padiglione svizzero alla Biennale di Venezia del 1988). Una delle sue poche necessità, forse l’unica, è quella di tornare ogni fine settimana a casa per poter stare con la moglie Monika e la figlia Aiméè. Nel nome di questa libertà è stato capace di alternare esperienze davvero lontanissime, come l’action painting e l’apprendistato di sei mesi in una scuola per bambini con problemi comportamentali.
In ogni mostra c’è sempre qualcosa che lascia un segno davvero indelebile nel visitatore. Tra i 150 lavori esposti al Lac questo ruolo tocca stavolta alla Chambre de Lecture (20132015), collocata proprio di fronte all’ingresso della mostra, «che — spiega con orgoglio il direttore Marco Franciolli — tutti vedono all’inizio della visita ma che poi tornano a rivedere una volta terminata la visita». Ancora una volta, la Chambre non è quello che sembra. Uno spazio neutro delimitato da alte pareti bianche che ospita 432 profili di ferro modellati da Raetz e sospesi ordinatamente davanti a quelle pareti bianche. Un’opera nata sulla suggestione della fisiognomica di Cesare Lombroso che, però, ancora nasconde un segreto o un’alternativa: un minimo spostamento d’aria e i profili si animano; uno sguardo più ravvicinato e il sorriso può trasformarsi in un ghigno; una piccola ondulazione e si possono stabilire nuove affinità tra profili lontanissimi. Perché niente è mai come appare. Per fortuna.