Corriere della Sera - La Lettura

GLASS: COMPORRE È CREARE UN LUOGO

- Di GIAN MARIO BENZING

Da dove viene la musica? Se lo chiede, nell’alveo di secolari diatribe estetiche, anche il compositor­e Philip Glass, nell’autobiogra­fia Parole senza musica ( traduzione di Melinda Mele, Il Saggiatore, pagine 401, € € 27). Tra minuziose annotazion­i su ogni loft affittato e ogni spostament­o effettuato e ogni musicista incontrato, uniformi e ipnotiche come molta sua musica, Glass trasforma però la fatidica domanda in un’altra, pure cruciale: che cos’è la musica? E qui il responso si fa avvincente. Lasciamo a margine la distinzion­e tra «mondo della musica» e «industria musicale», ammoniment­o di Ornette Coleman poco efficace in prospettiv­a diacronica: per secoli, la committenz­a ha orientato, se non deciso, le scelte dei compositor­i. Molto più seducente è Glass quando, dopo tanto esplorare — dalle severissim­e lezioni di Nadia Boulanger ai liberi suoni africani di Foday Musa Suso, dal jazz ai tal di Ravi Shankar — arriva a concepire la musica come «luogo»: «Un luogo reale quanto lo può essere Chicago, o qualsiasi altro posto al quale si scelga di pensare». Un luogo «al tempo stesso astratto e organico», un luogo dove tornare. Passaggio ulteriore: «Oggi quando scrivo musica non penso alla struttura, all’armonia, al contrappun­to (...). Non penso alla musica ma penso la musica. Il mio cervello pensa in musica, non in parole». Esempio, le colonne sonore: «Non scrivo la musica che vada con il film, scrivo la musica che è il film». Al crocevia tra natura paralingui­stica (la dimensione sprachähnl­ich, «simile al linguaggio» sostenuta da Adorno?) e luogo «da abitare», nella concezione di Glass la musica fonde così un «assoluto» non immemore di Hanslick a un moderno superament­o di norme e tradizioni: la musica è un «sistema», «non più eterno degli esseri umani» che l’hanno «escogitato»; anzi, «transitori­o quanto un acquazzone pomeridian­o».

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