Corriere della Sera - La Lettura
Ecco, caro Candide, dove viviamo: nel peggiore dei mondi possibili
Tutto è bene quel che finisce in tragedia. Mark Ravenhill dipinge l’ennesima sfaccettatura di una società, la nostra, che crede di aver raggiunto il progresso — economico e civile — e invece si trova molto più a suo agio in un brodo primordiale fatto di tempeste e violenza. Il suo ultimo lavoro, Candide, che prende spunto dal pamphlet di Voltaire, è un contro-inno al pensiero positivo, all’ottimismo che deriva dall’ambizione o dalla conquista di un benessere fatto di materialismo in puro senso consumistico.
Il Candide di Ravenhill scritto per la Royal Shakespeare Company nel 2013 a fine febbraio approda in Italia, in prima nazionale al Teatro Argentina di Roma per la regia di Fabrizio Arcuri. Un Ravenhill forse più pacato, racconta Arcuri a «la Lettura»: «È meno violento del solito. Anche se in questa pièce ci sono scene piuttosto forti — nel secondo atto una ragazzina stermina a sangue freddo quasi tutta la famiglia —, non siamo ai livelli di Shopping&Fucking ».
Shopping&Fucking è lo spettacolo che nel 1996 debuttò a Londra scatenando (ovvie) polemiche per la brutalità esplicita, la critica — molto poco velata — al consumo di massa e alla possibilità di mettere in vendita tutto, a partire dal proprio corpo. Senza valori, ciò che rimane è solo l’istinto al piacere che non rientra neanche più nella sfera morale, la perversione assoluta che porta uno dei protagonisti a pagare per farsi uccidere nel corso di uno stupro (anale e con un coltello). Perché tanto male? «È una forma di linguaggio — risponde Mark Ravenhill, raggiunto a Londra da “la Lettura” —, è una metafora che affonda le sue radici nella nostra società che, da parte sua, perpetra un altro tipo di violenza quotidiana, più astratta forse, ma non meno pericolosa. Siamo competitivi, individualisti e incapaci di rispettare le regole base della convivenza cosiddetta “civile”. È vivere la vita reale che fa veramente male».
Un anno prima di Shopping&F***ing (in Gran Bretagna censurarono il nome — ma solo quello — con gli asterischi) debuttava anche Sarah Kane con Blasted. Prima di essere definita un capolavoro e di considerare l’autrice una delle più influenti e talentuose promesse del teatro inglese, l’opera venne da alcuni definita this disgusting feast of filth, un disgustoso trionfo di schifezze; razzismo, sesso, abusi e cannibalismo. Kane muore suicida nel 1999 ma lascia un’eredità importante, poi raccolta da tutti quegli autori che si muovono prevalentemente sulla scena londinese e che verranno definiti (new) young angry men (i giovani arrabbiati) o con il termine dialettale in yer face (in faccia), secondo la definizione che diede il critico Aleks Sierz.
«La violenza è un tratto comune di questo filone drammaturgico», precisa a “la Lettura” lo scrittore Luca Scarlini, curatore con Barbara Nativi dell’antologia «arrabbiata» Nuovo teatro inglese (Ubulibri) che raccoglie, fra gli altri, i testi di Ravenhill e di Philip Ridley, autore di cui abbiamo parlato su queste pagine il 17 gennaio, e da poco di nuovo in libreria con Ziggy Stardust (add editore, pagine 112, euro 12) dedicato alla memoria di David Bowie. «Violenza che non è meno presente nel teatro in generale, anche quello italiano, solo che noi l’abbiamo sublimata con l’Opera, per esempio. Cosa c’è di più violento della morte di Violetta nella Traviata? ». Per esempio c’è uno stupro consenziente che finisce nel sangue; oppure la strage familiare in una camera d’albergo del Candide. Un linguaggio, come ripete Ravenhill, per evitare la retorica su questioni che potrebbero diventarlo, una fra tutte la critica sociale. «Questo genere è stato rappresentato in Italia prevalentemente nei circuiti sperimentali — continua Scarlini —. E solo di recente nei grandi teatri. Edward Bond, punto di riferimento per tutta questa generazione autorale, è stato messo in scena sempre a Roma ma con quarant’anni di ritardo rispetto alla prima londinese».
«Cerco sempre di proporre testi nuovi, scritture contemporanee — confer- ma il regista Fabrizio Arcuri, che ha già lavorato con testi di Ravenhill —. Propongo un’alternativa al repertorio classico, al momento dominante, e rendo il teatro più vicino allo spettatore, meno elitario». In questo Candide, anche se dai toni più contenuti, i temi sono quelli cari all’autore inglese, fra gli altri l’incapacità di vedere se stessi per quello che siamo: «Il primo e il quarto atto sono ambientati ai tempi di Voltaire — riprende Arcuri —, e a Candide viene offerta la possibilità di assistere alla messa in scena della propria vita. Nel secondo e nel terzo siamo ai giorni nostri, quando viene commessa la strage da parte della diciottenne Sophie, che risparmierà la madre Sarah, prima di uccidersi a sua volta. Sarah trasformerà l’esperienza in un libro di grande successo e sarà tentata dall’industria del cinema. Ogni scena sottolinea la continua rappresentazione di se stessi, al di là della verità, in un libro, in un film, in un teatro».
In un gioco di scatole cinesi, ognuno vede se stesso come vorrebbe essere e non per quello che in realtà è, preda della degenerazione civile (Sophie uccide perché crucciata dal riscaldamento globale e dal destino del pianeta). Nell’ultimo atto, allegoria finale, Candide e una Cunégonde quattrocentenaria si rincorrono sulla scena. Si cerca un bacio fra il candido ottimismo e un’Europa invecchiata (male). Come dire che dal pensiero positivo non si sfugge: «L’ottimismo è un’autoimposizione», aggiunge Ravenhill, che stronca «l’accusa» di fare teatro politico: «In Candide, come in ogni altra mia opera, non c’è nessun messaggio, né di speranza, né di possibilità alternative. Il consumismo, il capitalismo sono solo conseguenze del nostro atteggiamento artificioso. Felici di vivere in un mondo che può offrire qualunque cosa, se la paghi. Questa positività cronica annienta ogni capacità critica e fa male a qualunque politica». Non c’è soluzione, se non quella di «cercare di vivere in pace e con rispetto». Ravenhill tace per un momento e poi scoppia a ridere: «Non è vero, non credo proprio che sia possibile».
Il regista Fabrizio Arcuri mette in scena il lavoro più recente dell’«arrabbiato» inglese Mark Ravenhill, che dice: «Siamo competitivi, individualisti, felici di abitare una società dove puoi comprare tutto. E questo ci annienta»