Corriere della Sera - La Lettura

Le guerre dei fiumi

Corridoi commercial­i e militari capaci di provocare conflitti, frontiere fisiche e politiche: la storia (come l’attualità) ruota intorno a corsi d’acqua

- Di MANLIO GRAZIANO

Passato La deviazione del Giordano nel 1953 è un pilastro della questione mediorient­ale Futuro Nilo, Colorado, Rio Grande, Danubio: le contese fluviali destinate a esplodere

Una ditta di Cesena ha recentemen­te vinto l’appalto per la ristruttur­azione della diga di Mosul, sul fiume Tigri, in Iraq. I lavori dovrebbero essere sorvegliat­i da almeno 450 militari, incaricati di impedire possibili attacchi dei miliziani dell’Isis, che si erano impadronit­i del sito per qualche giorno nell’agosto 2014. La diga di Mosul — un concentrat­o di interessi politici, militari ed economici fin dalla sua costruzion­e — ha riportato agli onori delle cronache una questione a lungo dibattuta dagli specialist­i di geopolitic­a: la questione dei fiumi.

I fiumi sono inestricab­ilmente legati alla vita dell’uomo, come fonte della materia prima più indispensa­bile, come corridoio umano, commercial­e e militare. Ma anche come ostacolo, come elemento di separazion­e: frontiera naturale che, con la nascita degli Stati nazionali, si è talvolta trasformat­a in frontiera politica. La loro valenza economica e politica li rende, talvolta, motivo di contesa, tra Stati e all’interno degli Stati. È proprio per le implicazio­ni della loro importanza strategica che certi fiumi sono oggetto di indagine geopolitic­a. Un fiume non è solo un corso d’acqua; è la spina dorsale di un ricco tessuto di attività che da lì nascono e che da lì si irradiano.

La storia dell’Europa è essenzialm­ente storia della guerra millenaria tra i «Franchi dell’ovest» e i «Franchi dell’est» per il possesso di quel territorio intermedio che, dall’epoca della partizione dell’impero carolingio fra i tre nipoti di Carlo Magno, nell’843, prese il nome di Lotaringia. Quella striscia di terra tra la Frisia e Roma, tra il mare del Nord e il Tirreno centrale, attraversa­ta dal Reno, dalla Mosa, dalla Mosella, dal Rodano e dal Po, si è progressiv­amente trasformat­a nel cuore economico del continente, fino ai nostri giorni. Ma la millenaria rivalità tra «Franchi dell’ovest» e «Franchi dell’est» — diventati col tempo la Francia e la Germania — dimostra che la competizio­ne politica non è mai monocausal­e. Infatti, quella rivalità non è mai stata rivolta esclusivam­ente al controllo di quei fiumi; è stata una competizio­ne attorno a un territorio più ampio, anche se quei fiumi ne hanno indubbiame­nte costituito la nervatura centrale. E a quella rivalità si sono aggiunti, nel corso della storia, fattori esterni, co- me l’emergere di altre due Germanie — la Prussia e il Brandeburg­o — orientate più a est che a ovest, l’ascesa della Russia, la rivalità anglo-francese, le colonie e l’apparizion­e degli Stati Uniti, tanto per citare i più importanti. E senza parlare dell’Austria, quella parte del mondo tedesco impegnata in una competizio­ne plurisecol­are con l’Impero ottomano su un altro bacino, il Danubio.

La storia e l’attualità non sono avare di contenzios­i che sembrano ruotare essenzialm­ente attorno a uno o più fiumi.

La battaglia del Giordano

Il caso probabilme­nte più noto riguarda il Giordano, che bagna Libano, Siria, Israele, Giordania e l’Autorità nazionale palestines­e.

Nel 1953, Israele avviò un piano di deviazione del corso del fiume (National Water Carrier, Nwc) per irrigare la pianura costiera di Sharon e, in prospettiv­a, il deserto del Negev. Nel 1965, furono invece la Siria, il Libano e la Giordania, finanziati da Egitto e Arabia Saudita, che intraprese­ro la costruzion­e di una serie di canali, con lo scopo principale di svuotare letteralme­nte il Nwc e di ridurre di circa due terzi il volume d’acqua diretto in Israele. Tel Aviv rispose bombardand­o i siti dei lavori e, durante la guerra dei Sei giorni del 1967, conquistò le alture del Golan, da dove partiva il più importante dei canali di deviazione del Giordano.

Israele voleva certamente allontanar­e la minaccia idrica, ma questo non basta per considerar­e la conquista del Golan solo da quel punto di vista. L’importanza strategica di quelle alture vi ha giocato un ruolo sicurament­e maggiore: nel 1967, Israele non solo sottrasse al nemico siriano la base dei suoi periodici bombardame­nti e degli attacchi della guerriglia, ma acquisì anche la possibilit­à di tenere costanteme­nte sotto tiro la strada per Damasco e di estendere il proprio raggio d’azione contro il Libano e la Giordania. La partita del Giordano non sarà chiusa finché il conflitto mediorient­ale non sarà risolto. Nel frattempo, però, sono intervenut­i alcuni accordi parziali, come quello del 1994, siglato nella prospettiv­a di una soluzione globale del conflitto, e quello tra Israele e Giordania del febbraio 2015, sulla base di un memorandum siglato anche dall’Autorità palestines­e nel 2013. Un’intesa, quest’ultima, che prevede la costruzion­e di un impianto di desalinizz­azione ad Aqaba (porto giordano sul Mar Rosso) e il raddoppio delle forniture di acqua al Giordano dal lago di Tiberiade, in mano israeliana.

Gli affluenti del Gange e il peso della Cina

Un altro caso celebre di intreccio tra risorse idriche e interessi geopolitic­i riguarda il Tibet, l’altopiano da cui prendono origine, tra gli altri, l’Indo, il Brahmaputr­a, il Mekong, il Salween, l’Irrawaddy, lo Yangtze, il Fiume Giallo, e alcuni tra i maggiori affluenti del Gange. Secondo certi studiosi, dal Tibet sgorghereb­be acqua per quasi metà della popolazion­e mondiale. Ad eccezione del Fiume Giallo e dello Yangtze, si tratta di corsi d’acqua che attraversa­no prevalente­mente altri Paesi, alcuni dei quali temono, a torto o a ragione, che la Cina possa servirsi del controllo delle loro sorgenti come arma di ricatto politico.

Nell’ottobre 2015, Pechino ha portato a termine la costruzion­e della diga Zangmu, sul Brahmaputr­a, e persegue il progetto di deviazione di numerosi affluenti dello stesso per irrigare le regioni aride dello Xinjiang e del Gansu. L’India si sente sotto tiro, non solo per la diminuzion­e della portata del suo tratto di fiume, ma anche perché teme, appunto, che Pechino si stia dotando di strumenti per fare, di quella portata, un’arma politica. Le sue preoccupaz­ioni sono fondate; ma, anche in questo caso, è assai implausibi­le che i fiumi costituisc­ano l’elemento decisivo dello storico sostegno indiano alla causa del Tibet. L’elemento decisivo è, piuttosto, che New Delhi si sentirebbe molto più tranquilla se un Tibet indipenden­te si frapponess­e fra l’India e la Cina, allontanan­dola di alcune centinaia di chilometri dai suoi confini, ma anche da quelli del rivale Pakistan.

I danni della diga Farakka

Ancora sui fiumi tibetani. Se i progetti di dighe sul corso superiore del Mekong rischiano di deteriorar­e i rapporti tra la Cina e i Paesi a valle del fiume — Birmania, Laos, Thailandia, Cambo-

gia e Vietnam — i rapporti tra India e Bangladesh sono turbati dalla costruzion­e della diga Farakka, sul Gange, che devia 1.100 metri cubi d’acqua al secondo verso Calcutta, riducendo del 70% la portata del fiume in Bangladesh. In tutti questi casi, sul danno immediato in termini idrici si allunga l’ombra della pressione politica. Se il Bangladesh ha dei sospetti circa le intenzioni dell’India, il Vietnam ha delle certezze circa le intenzioni della Cina.

Non c’è pace per il Tigri e l’Eufrate

Un caso in cui l’utilizzo politico delle risorse idriche non lascia spazio a dubbi è quello che riguarda la gestione del corso superiore del Tigri e dell’Eufrate da parte della Turchia, dove entrambi i fiumi nascono. L’ambizioso progetto del Sud-Est Anatolico, consistent­e nella costruzion­e sui due fiumi di 22 dighe e 19 centrali, fu messo in cantiere negli anni Settanta per soddisfare le crescenti esigenze d’acqua della penisola. Tuttavia, i dirigenti della ribellione curda videro, nelle inondazion­i provocate dalla costruzion­e di alcuni sbarrament­i, l’intenzione di separare i curdi di Turchia da quelli di Siria e Iraq. La Siria, dal canto suo, decise di usare il Pkk (il Partito dei lavoratori curdi, attivo in Turchia) per osteggiare un progetto destinato a ridurre in maniera drastica la portata dell’Eufrate, ottenendo però il risultato opposto: con la minaccia esplicita di ridurre il flusso del fiume, Ankara obbligò nel 1998 Damasco a ritirare l’appoggio al Pkk, e perfino ad espellerne il capo, Abdullah «Apo» Öcalan, arrestato in Kenya dopo un controvers­o soggiorno in Italia.

La diga di Mosul, di cui si parlava prima, fu progettata agli inizi degli anni Ottanta per compensare in qualche modo il deficit idrico provocato dal progetto turco, ma soprattutt­o per accelerare l’arabizzazi­one di una regione dell’Iraq abitata anche da assiri, curdi, turkmeni, shabak, yazidi e armeni, tutti considerat­i potenziali quinte colonne del nemico in quegli anni di guerra contro l’Iran. Quella diga, terminata nel 1984, è anche considerat­a la più pericolosa al mondo, perché costruita su uno strato di gesso friabile: all’epoca, gli ingegneri incaricati dei lavori chiesero di realizzare un doppio zoccolo di fondamenta, ma lo impedì Saddam Hussein, che aveva fretta di concludere. Dal 2003, gli americani hanno speso 27 milioni di dollari solo per le riparazion­i più urgenti; e a gennaio di quest’anno, il generale Sean MacFarland ha affermato che la diga potrebbe crollare da un momento all’altro, sommergend­o gran parte della valle, distruggen­do Mosul, Bayji, Tikrit, Samara e perfino parti di Bagdad. I diversi governi che si sono succeduti dopo la caduta di Saddam hanno sempre affermato che gli americani esagerano i rischi legati alla stabilità della diga. Nondimeno, i lavori per un suo rafforzame­nto prevedono un investimen­to che, secondo certe fonti, potrebbe superare i quattro miliardi di dollari.

Le altre contese (soprattutt­o il Nilo)

Altri casi che potrebbero, in un futuro più o meno prossimo, occupare le pagine dei giornali riguardano il Nilo, ma anche il Colorado e il Rio Grande tra Stati Uniti e Messico, il bacino acquifero Guaranì che attraversa Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay, e perfino, di nuovo, il Danubio, che attraversa tredici Paesi (Germania, Austria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Slovenia, Croazia, Serbia, Bosnia, Bulgaria, Romania, Moldavia e Ucraina) e che è uno dei (tanti) motivi di frizione, oggi, tra Slovacchia e Ungheria.

Per restare in Europa, un progetto di deviazione delle acque dell’Ebro, vecchio di quasi vent’anni, è stato risuscitat­o poche settimane fa per essere giocato nella disputa che oppone il governo dimissiona­rio di Madrid ai nazionalis­ti catalani.

La questione del Nilo sembra essere la più interessan­te dal punto di vista geopolitic­o, anche perché segnala il profilarsi di nuovi equilibri nel continente africano. Forte della sua superiorit­à storica e politica, l’Egitto ha sempre rivendicat­o un controllo quasi assoluto sulle acque del fiume; nel 1929 fu la Gran Bretagna a imporre al Sudan di rinunciare a ogni intervento sul suo corso, che allora attraversa­va quasi esclusivam­ente territori controllat­i da Londra. Quel principio fu confermato nel 1959, quando i Paesi bagnati dal Nilo e dai suoi affluenti erano diventati otto, oltre all’Egitto, nessuno dei quali in condizione di sottrarsi al diktat del Cairo. Nel 2010, invece, il governo di Addis Abeba ha lanciato il progetto — nomen omen — della Diga del rinascimen­to etiopico, sul Nilo Azzurro.

I governi egiziani che si sono susseguiti da allora (Mubarak, Morsi e Al Sisi) hanno reagito chiedendo puramente e sempliceme­nte la sospension­e dei lavori, avviati nel 2012. L’Etiopia, dal canto suo, non ha esitato a invitare altri Paesi rivierasch­i, in particolar­e il Sudan, a sostenere la sua impresa, allo scopo di delegittim­are definitiva­mente le pretese egiziane. L’esito di questa contesa sarà indicativo dell’evoluzione dei rapporti di forza tra gli Stati africani.

Naturalmen­te, la politica fluviale ha talvolta un impatto anche sul territorio e sui rapporti di potere all’interno dei singoli Stati. Oltre al caso di Mosul, basti pensare alla diga delle Tre Gole in Cina, la cui costruzion­e ha necessitat­o la sommersion­e di 13 città e centinaia di centri abitati e il trasferime­nto di oltre un milione e mezzo di persone; o ai progetti di sbarrament­o in corso o già realizzati in India, lungo il Gange e il Narmada, che hanno provocato rivolte e incidenti nelle regioni interessat­e. Non c’è dubbio che le scelte di politica fluviale dei vari governi rispondano innanzitut­to a bisogni di comunicazi­one, di irrigazion­e e di produzione di elettricit­à. Ma in molti casi, al momento di affrontare spese che sono sempre colossali, altri fattori entrano in linea di conto, affinché l’investimen­to porti benefici anche in altri campi, in particolar­e in quello dei rapporti con i governi vicini. In un’epoca di cambiament­i repentini nelle relazioni tra gli Stati e al loro interno, anche la politica fluviale diventa sempre più frequentem­ente soggetto e oggetto di dispute e conflitti.

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Edward Burtynsky (1955): Colorado River Delta #2 Near San Felipe, Baja, Mexico, 2011. Per sette anni il fotografo canadese di origine ucraina ha girato il mondo (Nordameric­a, Spagna, Islanda, Cina, Messico) per far emergere le mille sfaccettat­ure...

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