Corriere della Sera - La Lettura

Com’è difficile essere altruisti con la nel giardino

Giungla

- Dal nostro corrispond­ente a Parigi STEFANO MONTEFIORI

Che cosa accadrebbe se migliaia di disperati si accampasse­ro proprio di fronte a casa nostra? Come reagiremmo? E come è cambiata la vita di coloro ai quali è capitato? Emmanuel Carrère è andato a Calais per parlare dei suoi abitanti, più che dei migranti. Lo scrittore francese ha trascorso due settimane nella città della Manica per raccontare l’ormai celebre caffè Minck, popolare e conviviale, dove tutti si stringono la mano appena entrati; ha incontrato i ragazzi del centro culturale Channel, diventato la base delle associazio­ni di sostegno ai rifugiati; ma Carrère ha parlato anche con quella signora incattivit­a, residente sulla route de Gravelines, vicino all’autostrada, che assiste ogni giorno al via vai di giovani inseguiti dalle camionette della polizia fino davanti a casa. Casa che ormai, peraltro, non vale più niente.

Di fronte alla tragedia epocale della guerra in Siria, davanti alla destabiliz­zazione di tutto il Medio Oriente e di parte del Nordafrica e all’arrivo in Europa di masse di disperati provenient­i dal Sud del mondo, Carrère si occupa delle rate del mutuo della signora di Calais. Lo fa senza prendere parte, anzi forse prendendo le parti un po’ di tutti, perché in gioco ci sono diritti ugualmente legittimi. Quello dei migranti che provano a raggiunger­e l’Inghilterr­a per sfuggire alla miseria o alla guerra, e quello dei francesi di Calais, già colpiti dalla disoccupaz­ione in una delle zone più depresse del Paese, e adesso travolti dalla storia.

«L’idea era di scrivere un reportage non sulla Giungla (il campo profughi, ndr), perché su quel tema ne sono già stati scritti molti e preziosi, ma di volgere lo sguardo sulla città — spiega Carrère a “la Lettura” —. Ovviamente parlando anche della Giungla, è inevitabil­e. Mi ha colpito vedere quanto gli abitanti di Calais siano divisi tra “promigrant­i” e “anti-migranti”, pur essendo cosciente che questi termini non hanno molto senso. Certo ci sono quelli che dicono “tornino a casa loro”, ma non sono poi così tanti. Per molti essere “pro-migranti” vuole dire trattarli con umanità, ma nessuno trova soddisface­nte il fatto di avere 6 o 7 mila persone che dormono nel fango all’ingresso di una città di 70 mila abitanti. È una massa di gente pari a quasi il 10 per cento della popolazion­e».

Carrère è stato a Calais a gennaio su richiesta della rivista «XXI», nel frattempo una piccola parte della Giungla è stata smantellat­a ma nessun problema è stato risolto, né qui né nel resto del continente. «In questi giorni stiamo forse assistendo all’esplosione dell’Europa, e tutto può dipendere da questo problema. Gli abitanti di Calais lo vivono sulla loro pelle e reagiscono con una specie di riflesso automatico: “Perché noi? Eravamo già messi male, ci mancava questa”».

La risposta di Calais alla crisi dei migranti è interessan­te perché parla di noi. «Si va dalla compassion­e generosa al rigetto identitari­o passando per il senso di colpa, sentimento che secondo me siamo in molti a provare. Dare un po’ di soldi? Perché no. Portare delle coperte e del cibo? Certo, lo farò volentieri e avrò l’impression­e di fare qualcosa di buono. Ma sarei disposto ad accogliere dei migranti nel mio appartamen­to? Non ne sono sicuro… La situazione di Calais riporta tutti a qualcosa di personale. Ci mette di fronte alla nostra capacità, o incapacità, di essere altruisti».

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