Corriere della Sera - La Lettura
I faraoni gelidi di Don DeLillo
I ricchi hanno beffato tutti, ora devono soltanto battere la morte Il nuovo romanzo (letto in anteprima) del maestro americano
«Zero K» uscirà a maggio nelle librerie statunitensi: la sinfonia più bella e affascinante dai tempi di «Underworld». Il titolo si riferisce alla temperatura delle celle frigorifere nelle quali l’élite dei potenti insegue l’immortalità, in una vicenda che unisce alla forte critica sociale pagine toccanti sul senso della vita
Herbert von Karajan, già anziano e malato, diresse nel 1985 in San Pietro, davanti al Papa e, nelle prime file, a un oceano porpora di cardinali, la Messa di Incoronazione mozartiana: ai suoi Wiener Philharmoniker bastò un gesto, lievissimo, del braccio del Maestro, per far nascere dalle prime note un suono di una bellezza abbagliante, inconfondibile. E al soprano Kathleen Battle, allora la voce più cristallina della lirica — e dal temperamento ingestibile, ma con Karajan la divina non faceva capricci — bastava uno sguardo del direttore per essere guidata attraverso l’Agnus Dei.
A Don DeLillo, nel nuovo Zero K (Scribner) letto in anteprima da «la Lettura», basta un incipit di nove parole (in originale), sette in italiano: «Tutti vogliono possedere la fine del mondo» per dare inizio alla sua sinfonia più bella e affascinante dai tempi di Underworld (1997, Einaudi).
DeLillo ha avuto la fortuna, a differenza di altri autori americani condannati a una carriera tutta in salita subito dopo l’esordio fulminante, di cominciare piano la sua scalata al Monte Rushmore della letteratura statunitense: sette romanzi in undici anni, dal 1971 al 1982 ( Americana, End Zone, Great Jones Street, La stella di Ratner, Giocatori, Cane che corre, I nomi: tutti editi in Italia da Einaudi) ottimamente recensiti ma poco letti, prima di arrivare nel 1985 al libro che gli ha cambiato la vita, e la carriera, a 49 anni: Rumore bianco (sempre Einaudi) vincitore del National Book Award che ha inaugurato il trittico — non una trilogia — della maturità dell’autore: Libra sull’assassinio Kennedy, Mao II su uno scrittore in fuga dal mondo che spiega come il mondo non sia più plasmato dalla letteratura ma dal terrorismo (era il 1991, l’anno dell’ottimismo generalizzato su scala globale per la fine della guerra fredda), e Underworld.
Dopo Underworld, romanzo-fiume di quasi novecento pagine che ci racconta una storia parallela del dopoguerra americano e della guerra fredda — il baseball come summa dell’esperienza americana, la paura della bomba atomica, il rock, la distruzione dell’ambiente e l’implosione del capitalismo — quattro romanzi che hanno dato vita al tardo periodo della creatività di DeLillo, libri più compatti, con pochi personaggi, quasi delle novelle lunghe se non proprio delle miniature, il maestro che — forse per reazione, o perché non è mai troppo tardi per sperimentare — impugna il bulino dopo aver terminato l’affresco della sua Sistina. È la tetralogia di Body art, Cosmopol i s , L’ uomo c he c ade e Punto omega: una s to r i a postmoderna di fantasmi, l’avidità di Wall Street, l’orrore e le cicatrici dell’11 settembre, la guerra come business e come necessità antropologica, evolutiva, che spinge noi umani verso l’annientamento.
DeLillo porta sulle spalle l’ammirazione di tanti colleghi più giovani — Paul Auster è un amico fraterno e a lui ha dedicato il suo libro più delilliano, Leviatano; David Foster Wallace lo elesse a suo mentore negli anni più caotici della sua vita breve e straordinaria; il solitamente laico Martin Amis gli ha attribuito il dono della profezia; Jennifer Egan e Dana Spiotta gli devono amicizia e generosa attenzione — oltre alla stima di tanti grandi autori della sua generazione — Matthiessen, Doctorow, Salter, Sorrentino —, che ora non ci sono più e dei quali ha ricordato in modo toccante «la recente dipartita» lo scorso novembre ritirando la medaglia alla carriera del National Book Award «per il contributo straordinario alle Lettere americane» (il suo discorso si può ascoltare su YouTube: http://www.youtube.com/watch?v=1XiSC3ozVBQ perché il video è stato oscurato su richiesta dell’autore, un momento che fa molto Mao II). gelamento: «Pensi mai al futuro? Come sarà tornare indietro? Lo stesso corpo? Un corpo migliore, ma cosa sarà successo alla tua mente? La coscienza resterà inalterata? Sei la stessa persona di prima? Quando muori sei una persona con un certo nome, una certa storia, un certo mistero racchiuso nel tuo nome e nella tua storia. Ma ti sveglierai con tutto questo ancora intatto? È solo una lunga notte di sonno?».
Ovviamente no, e la prima parte del romanzo — intitolata Al tempo di Chelyabinsk — è separata dalla seconda ambientata a New York, Al tempo di Kostantinovska — da un breve capitolo-cerniera nel quale DeLillo si avventura coraggiosamente su un terreno impossibile che nella storia della letteratura è stato affrontato da Paolo, da Agostino, da Maimonide. Cosa pensa Artis, durante il periodo di sospensione tra la vita e la morte? È uno stato liminale? È già morta, in attesa di ritornare? Qui DeLillo scrive soltanto sei pagine, da vecchio postmodernista mai domo chiede in prestito a Beckett una delle sue voci incorporee per il brevissimo, lacerante capitolo Artis Martineau. Il monologo oltre la vita che va anche oltre la grammatica, oltre la prima e la terza persona, dove tutto è una domanda senza punti interrogativi. E dove l’ultima frase è la nota di un drammaturgo invisibile, in corsivo: «Ancora e ancora. Occhi chiusi. Corpo di donna in una capsula».
Se un tempo l’eschaton era esclusiva delle religioni, ora Lockhart padre e i suoi soci-complici-correligionari hanno preso possesso della fine dei tempi: la base del culto della vita eterna (per i ricchi) non è lontana da Chelyabinsk, dove nel 2013 una meteora sfiorò la Terra, immortalata da tanti video girati col telefonino e caricati su YouTube, prima di esplodere in cielo mandando in frantumi i vetri di un’intera regione, millecinquecento feriti lievi, prova generale della fine del mondo.
Sarebbe un’imperdonabile mancanza di sportsmanship anticipare cosa accade nella seconda parte del romanzo, in cui DeLillo dall’ex Urss torna alla sua città natale, New York, non il natìo Bronx ma la Manhattan dei super ricchi, e dove il passivo, inutilmente ribelle, debole Jeffrey specialista in fallimenti pare intenzionato ad accettare una proposta di lavoro — un patto faustiano: «Barba fatta, scarpe lucidate» — confezionata dal padre. Ma è in questa parte che DeLillo torna a un calore che mancava da Underworld, l’umanità dello scrittore che regala dettagli come piccoli gioielli, i «regali nascosti» dei quali ha parlato Jennifer Egan. Qui DeLillo ci fa dono del taxista afghano che non si stupisce quando un quattordicenne bianco comincia a parlargli in Pashto «senza lasciarsi intimidire dal rumore del traffico e dei cantieri stradali», perché così è New York, città dove risiede «ogni genere di genotipo».
Dentro Zero K non ci sono più le arie d’opera alle quali ci aveva abituato il DeLillo di tanti anni fa come il magnifico monologo di Marguerite Oswald alla fine di Libra perché il maestro, alla vigilia degli ottant’anni, calibra ogni gesto, come faceva Karajan quel giorno in San Pietro.