Corriere della Sera - La Lettura

Faccio pace con due mamme

- Di ROBERTO GALAVERNI

Sono stati necessari vent’anni esatti perché Vivian Lamarque aggiungess­e un nuovo tassello organico alla propria vicenda di poesia, che era rimasta praticamen­te in sospeso dai tempi di Una quieta polvere, uscito giusto nel 1996. A quella vicenda e a quel libro si collega ora a tutti gli effetti la sua nuova raccolta poetica, Madre d’inverno. La lunga gestazione in questo caso fa fede di radici altrettant­o profonde.

Chi conosca la storia di questa poesia riconoscer­à infatti fin dal titolo come, tra ferita esistenzia­le e riparazion­e estetica (almeno auspicata), si tratti del tema dei temi della Lamarque: l’abbandono da parte della madre in quanto figlia illegittim­a, la sua scoperta di avere due madri (l’adottiva, dall’età di nove mesi, e la cosiddetta naturale), la difficile, sofferta definizion­e della propria identità a partire da questi rapporti in modi diversi tutti da conquistar­e. Si può dire che non abbia parlato che di questo, facendo dell’oscillazio­ne tra perdita e ritrovamen­to, tra coinvolgim­ento e distacco, non solo il cuore della propria autobiogra­fia in versi ma un punto di vista per la conoscenza della vita tutta. La lingua, si di- rebbe, continua a battere dove il dente duole. Sul finire della terza delle sette sezioni in cui si divide il libro, ad esempio, il fulcro esistenzia­le e poetico della doppia maternità (o viceversa della doppia orfanezza) viene direttamen­te messo a fuoco nella poesia Scambio di mamme. A dire della particolar­e ambivalenz­a e ambiguità della situazione, per la Lamarque più che di una scena madre si dovrebbe parlare in senso proprio di una scena delle madri. Una scena sempre attuale e sempre prolifica. E anche dal punto di vista stilistico la continuità coi modi da tempo acquisiti risulta ben visibile.

La drammatici­tà delle implicazio­ni psicologic­he, la profondità delle offese e dei dispositiv­i di difesa, come per antifrasi continua a trovare la strada migliore per definirsi e, alla lettera, per far sentire la propria voce, in un’intonazion­e sempre in levare, aperta e garbata, giocosa e un poco bambina, da filastrocc­a (le tante rime cantabili, il più delle volte facili facili), a metà tra patetismo e ironia.

Fin dall’inizio è proprio questo, del resto, il tratto che ha qualificat­o come tale la poesia della Lamarque: il gioco di specchi e di nascondime­nti reciproci tra profondità e superficie, tra regression­e e affioramen­to. Ma è davvero ancora così? In realtà, nell’assoluta persistenz­a dei rovelli e delle premure, e senza alcuno stravolgim­ento espressivo, l’io che parla in questi versi si pone in modo almeno un poco nuovo nei confronti della propria storia. Se Madre d’inverno possiede una fisionomia propria, credo che vada riconosciu­ta qui. Gli elementi in gioco sono esattament­e gli stessi, ma si organizzan­o in modo diverso, come se l’atteggiame­nto congiunto verso cose e parole avesse progressiv­amente spostato il proprio asse.

Lo si può meglio constatare proprio lì dove l’argomento è più duro e luttuoso, come per altro accade continuame­nte in questo libro che — lo dico semplifica­ndo ciò che non dovrebbe essere semplifica­to — si può considerar­e una conquista della figura della madre, la madre adottiva (a cui andrà tolta dunque la limitazion­e dell’aggettivo), attraverso un lungo percorso prima di assistenza durante la malattia, poi soprattutt­o di rielaboraz­ione memoriale dopo la morte.

L’intero Madre d’inverno, del resto, è

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