Corriere della Sera - La Lettura
Faccio pace con due mamme
Sono stati necessari vent’anni esatti perché Vivian Lamarque aggiungesse un nuovo tassello organico alla propria vicenda di poesia, che era rimasta praticamente in sospeso dai tempi di Una quieta polvere, uscito giusto nel 1996. A quella vicenda e a quel libro si collega ora a tutti gli effetti la sua nuova raccolta poetica, Madre d’inverno. La lunga gestazione in questo caso fa fede di radici altrettanto profonde.
Chi conosca la storia di questa poesia riconoscerà infatti fin dal titolo come, tra ferita esistenziale e riparazione estetica (almeno auspicata), si tratti del tema dei temi della Lamarque: l’abbandono da parte della madre in quanto figlia illegittima, la sua scoperta di avere due madri (l’adottiva, dall’età di nove mesi, e la cosiddetta naturale), la difficile, sofferta definizione della propria identità a partire da questi rapporti in modi diversi tutti da conquistare. Si può dire che non abbia parlato che di questo, facendo dell’oscillazione tra perdita e ritrovamento, tra coinvolgimento e distacco, non solo il cuore della propria autobiografia in versi ma un punto di vista per la conoscenza della vita tutta. La lingua, si di- rebbe, continua a battere dove il dente duole. Sul finire della terza delle sette sezioni in cui si divide il libro, ad esempio, il fulcro esistenziale e poetico della doppia maternità (o viceversa della doppia orfanezza) viene direttamente messo a fuoco nella poesia Scambio di mamme. A dire della particolare ambivalenza e ambiguità della situazione, per la Lamarque più che di una scena madre si dovrebbe parlare in senso proprio di una scena delle madri. Una scena sempre attuale e sempre prolifica. E anche dal punto di vista stilistico la continuità coi modi da tempo acquisiti risulta ben visibile.
La drammaticità delle implicazioni psicologiche, la profondità delle offese e dei dispositivi di difesa, come per antifrasi continua a trovare la strada migliore per definirsi e, alla lettera, per far sentire la propria voce, in un’intonazione sempre in levare, aperta e garbata, giocosa e un poco bambina, da filastrocca (le tante rime cantabili, il più delle volte facili facili), a metà tra patetismo e ironia.
Fin dall’inizio è proprio questo, del resto, il tratto che ha qualificato come tale la poesia della Lamarque: il gioco di specchi e di nascondimenti reciproci tra profondità e superficie, tra regressione e affioramento. Ma è davvero ancora così? In realtà, nell’assoluta persistenza dei rovelli e delle premure, e senza alcuno stravolgimento espressivo, l’io che parla in questi versi si pone in modo almeno un poco nuovo nei confronti della propria storia. Se Madre d’inverno possiede una fisionomia propria, credo che vada riconosciuta qui. Gli elementi in gioco sono esattamente gli stessi, ma si organizzano in modo diverso, come se l’atteggiamento congiunto verso cose e parole avesse progressivamente spostato il proprio asse.
Lo si può meglio constatare proprio lì dove l’argomento è più duro e luttuoso, come per altro accade continuamente in questo libro che — lo dico semplificando ciò che non dovrebbe essere semplificato — si può considerare una conquista della figura della madre, la madre adottiva (a cui andrà tolta dunque la limitazione dell’aggettivo), attraverso un lungo percorso prima di assistenza durante la malattia, poi soprattutto di rielaborazione memoriale dopo la morte.
L’intero Madre d’inverno, del resto, è