Corriere della Sera - La Lettura
Van Gogh cartoon di se stesso
Walter Benjamin ha scritto: «Il testo ricopiato comanda all’anima di chi gli si dedica, mentre il semplice lettore non conoscerà mai le nuove vedute del suo spirito quali il testo (…) riesce ad aprire: perché il lettore obbedisce al movimento del suo io nel libero spazio aereo della fantasticheria, e invece il copista si assoggetta al suo comando». Queste parole potrebbero introdurci a un film che già si annuncia come uno tra i casi cinematografici del 2016. Diretto dalla pittrice Dorota Kobiela e dal regista Hugh Welchman, Loving Vincent è in uscita nel prossimo autunno (la lavorazione è iniziata nel 2011). Si tratta di un biopic. È un’animazione. Ma è soprattutto altro. Per comprenderne l’originalità, occorre ripercorrere la storia dei film ispirati alla tragica vicenda umana e poetica dell’artista olandese. Muovendo dalle proposte di Resnais, di Minnelli e di Altman. I quali, nei loro racconti di carattere agiografico, recuperando l’idea romantica dell’arte come sublimazione della vita, si sono soffermati quasi esclusivamente sull’avventura biografica vangoghiana.
Diversa la strategia di Kurosawa, che ha elaborato un omaggio e, insieme, una rilettura nel quinto episodio di Sogni. Quasi per incanto, un giovane pittore ( alter ego del cineasta) si ritrova dentro i paesaggi nervosamente modellati da van Gogh: li attraversa come se fossero reali; poi, cammina a lungo, fino a scorgere, in lontananza, il suo eroe (interpretato da Martin Scorsese) che, assorto e febbrile, con l’orecchio bendato, si sottrae a ogni incontro. Non soddisfatto, l’ammiratore insegue ovunque quel «fantasma», consegnandosi a una passeggiata onirica all’interno di uno stupefacente universo fauve. Infine, un sordo colpo di arma da fuoco. E il volo di un gruppo di corvi che si levano sullo sfondo di un cielo azzurro cupo. Complesso il backstage: il cineasta giapponese aveva fatto ridipingere alcuni soggetti vangoghiani; e, servendosi di sofisticati dispositivi elettronici, si era consegnato all’effetto-quadro per condurre lo spettatore tra le distese di La Crau e di Auvers e i campi di grano solcati dai corvi.
«Il mondo si trova ricostruito a imitazione delle immagini che l’hanno rappresentato», ha osservato la sociologa Nathalie Heinich. Loving Vincent si richiama a questi artifici; e li supera attraverso il ricorso a una tecnica fondata su diversi passaggi. Per svelare gli ultimi tormentati mesi di van Gogh, la Kobiela e Welchman, in una prima fase, ne hanno scelto 120 tra le tele più celebri e ne hanno studiato l’epistolario. Poi, hanno avviato le riprese con attori reali. Intanto, hanno reclutato giovani pittori in tutto il mondo, che hanno frequentato corsi di training intensivo, per imparare a utilizzare l’applicazione Painting Animation Work Station.
Dopo aver superato queste prove, gli allievi sono stati accolti negli studios di Danzica e di Breslavia, in Polonia, dove hanno lavorato per rifare accuratamente i capolavori di van Gogh. Il risultato: un piccolo kolossal di circa 80 minuti. Con 62.450 inquadrature, 12 dipinti a olio per ogni secondo. All’origine di questa sperimentazione, una precisa intenzione critica. Diversamente da Resnais, da Minnelli e da Altman, la Kobiela e Welchman attribuiscono un valore centrale all’arte in sé. In linea con Kurosawa, ritengono che, lungi dall’essere subordinata al piano esistenziale, l’opera sopravviva sempre alla biografia di chi l’ha creata. Una convinzione suffragata da quel che sostiene, in alcune lettere, lo stesso van Gogh, secondo il quale l’artista autentico è in grado di parlare di sé solo attraverso gli esiti concreti del suo fare.
Sulle orme di questo «suggerimento», la Kobiela e Welchman riaffermano con forza l’importanza del concetto classico di mimesi, inteso non come mera copia, ma come riscoperta. Mimesi allude a un modo per dare un senso diverso a ciò che si assume. Non è calco ma rimodulazione di fonti già esistenti. Conflittuale pratica del transito, operazione vertiginosa, non è raddoppiamento di un determinato motivo, ma attivo porsi al suo servizio. Una sorta di inedita forma di traduzione, per alimentare un riconoscimento e, al tempo stesso, un misconoscimento. Gesto elegantemente iconoclasta, che trasloca altrove alcune tracce specifiche, per dischiudere orizzonti inesplorati.
Tra le principali soluzioni «mimetiche» cui si affidano la Kobiela e Welchman, il trompe-l’oeil, uno stratagemma adoperato dagli artisti sin dall’antichità, per favorire inganni prospettici e giochi illusori. Loving Vincent — come emerge già dai frame pubblicati qui a sinistra in anteprima da «la Lettura» — ci darà la sensazione di smarrirci tra le stradine di Arles, sotto i cieli stellati di notte, tra i campi, nelle locande. Incontreremo quadri in movimento, montati con sapienza dalla Kobiela e da Welchman. I quali sembrano pensare il cinema come stadio ulteriore della pittura. Intenti a far convergere pratiche linguistiche diverse (pittura, fotografia, cinema) dentro un unico medium (l’animazione), essi nel loro film riarticolano tele che replicano fedelmente altre tele, per comporre sequenze mobili e avvolgenti, riproponendo anche un colore già espressionista, denso ed enfatico, vorticante nei sentieri incisi dal pennello.
Copisti di talento (nel senso indicato da Benjamin), suggeriscono un rispettoso e, insieme, disinvolto esercizio di traduzione e riscrittura. Con immagini in alta definizione, rifanno il loro modello quasi alla perfezione: vi si immedesimano; ne ricalcano intuizioni, visioni, dissonanze. All’apparenza, si limitano a compenetrarsi con lo stile impaziente e irascibile di van Gogh. In realtà, con finezza ermeneutica, lo rianimano e riattivano: imprimono a questa «materia» una vita ulteriore, drammatizzandola anche grazie alla presenza di attori trasformati in cartoon. Riescono così a rivelare i segreti dell’inconfondibile sintassi inventata da questo «monaco fallito, reso pazzo dall’ineguaglianza e dall’ingiustizia sociale» (Hughes), ansiosa vittima di disperazioni, ossessionato dal bisogno di scavare negli anfratti dell’io catturandone inquietudini e allucinazioni, prodigioso nell’esprimere le emozioni con mezzi ottici, abile nel trattare la natura come geografia sublime e terribile e il visibile come manifestazione di energie contrastanti, intrecciando angoscia e talento, impegnato ad affrontare il mondo con gioia insicura, pietà, terrore.
Stati d’animo, questi, racchiusi in una confessione di Vincent a Theo. Settembre 1889: «La vita va così, il tempo non ritorna, ma io mi accanisco sul mio lavoro proprio perché so che le occasioni di lavorare non ritornano».