Corriere della Sera - La Lettura

«Solo, senza amore» Poi Segantini abbracciò la luce

La vita dell’artista in prima italiana a Trento

- Di GIUSEPPINA MANIN

«Io avevo sei anni, mia madre non ancora 29. Un giorno tornai a casa e lei era chiusa in una bara». Apritela!, grida disperato il piccolo Giovanni. Ma nessuno gli bada. Quella madre «bella come tramonto di primavera» non c’è più. Il giorno dopo il padre lo porta via, dal piccolo mondo familiare di Arco, in Trentino, alla sconosciut­a Milano. Affidato a una figlia di primo letto che lavora da mattina a sera, rinchiuso in una stanzetta dalle finestre troppo alte per guardare fuori. Invano il bimbo attende il ritorno del padre, che morirà l’anno dopo. E lui resta «solo, senza amore, da tutti abbandonat­o come un cane rabbioso».

Con queste parole Giovanni Segantini inizia il racconto della sua breve vita. Una partenza devastante che però, anziché fiaccargli l’anima, lo spinge misteriosa­mente a un’ascesi di luce. Sempre più in alto, alla ricerca di paesaggi più puri, colori più netti. Fino al chiarore assoluto, alla capanna a 2.700 metri sopra Pontresina, in Svizzera, dove il suo pennello tocca il cielo per l’ultimo quadro, il Trittico della vita, della natura, della morte. Dove la notte del 28 settembre 1899 la morte si arrampiche­rà per portarlo via a 41 anni per una peritonite.

E scandito in tre capitoli (Divenire, Essere, Trapasso) è anche il film-documento di Christian Labhart, Giovanni Segantini. Magia della luce, il 3 maggio in anteprima italiana al Trento Film Festival. Ritratto di un artista tra naturalism­o e simbolismo, analisi del rapporto tra i suoi dipinti e i luoghi in cui è vissuto. Dalle colline trentine alla pianura lombarda, dalla Brianza all’Engadina. «Una lettera d’amore a Segantini e alle sue montagne», lo definisce il regista, da 5 anni impegnato nel progetto. «All’inizio avevo sentito molti storici dell’arte. Poi ho letto le sue lettere, i diari, i frammenti dell’autobiogra­fa. Segantini, che non era mai andato a scuola, ha lasciato molte pagine. Nonostante gli errori di ortografia, di cui si scusava sempre, un miracolo di profondità. Alla fine ho deciso di dare la parola solo a lui».

Parole emozionant­i, scandite nell’edizione originale da Bruno Ganz, in quella italiana dall’attore Teco Celio. «La mia vita — confessa all’inizio del film l’io narrante — è tutta un sogno. Un sogno che si avvicina a un ideale finché la materia non lo dissolve». Presagio di una fine troppo vicina. Sullo schermo, un vecchio disegno pubblicato da un giornale locale mostra degli uomini in un bosco che reggono la barella con il corpo del pittore avvolto in un lenzuolo. Dietro una donna in lacrime, Bice, la compagna della vita, la madre dei suoi quattro figli. Sotto un cielo gonfio di nuvole, il corteo si dirige al cimitero di Maloja, ultima tappa dell’erranza di Segantini. Ma quando il feretro arriva davanti alla bianca chiesetta, ecco che spunta un raggio di sole. Sul portone ad attenderlo c’è Giovanni Giacometti, allievo di Segantini, il capello stretto al petto, la chioma rossastra scomposta. È lui che tra le lacrime traccia con il carboncino i tratti del maestro, ora così somigliant­e a un Cristo morto. L’ultimo ritratto. I precedenti, firmati dallo stesso Segantini, testimonia­no la trasformaz­ione di un volto e di un’anima, sempre più rarefatti, spirituali. Curiosamen­te, racconta il film, il primo disegno del giovanissi­mo Giovanni ai tempi in cui finisce per vagabondag­gio in riformator­io a Milano, è proprio il viso di una morticina. Davanti allo strazio della madre, disperata di non aver nulla per ricordare la sua creatura, il ragazzo si avvicina alla culla e su un pezzo di carta ne schizza il ritratto. E la donna, colpita dalla somiglianz­a, sorride. «Per un istante felice, dimentica del suo dolore», scrive Segantini, a sua volta folgorato dalla rivelazion­e del potere salvifico dell’arte.

Milano, città difficile dove patisce la fame, la solitudine, l’indifferen­za, dove «a nessuno importava se io fossi vivo o morto», è anche la città che lo spinge alla pittura. I suoi disegni dal riformator­io lo portano a Brera, a frequentar­e i corsi serali dell’Accademia. A Milano i primi riconoscim­enti, il sostegno di un critico come Vittore Grubicy che gli compra i primi quadri. E quei soldi lui li spende in fiori, rose per la fanciulla che gli ha preso il cuore, Luigia Bugatti detta Bice. Con lei, che mai potrà sposare perché, renitente al

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