Corriere della Sera - La Lettura

Gli schiavi sono 35 milioni La denuncia di Kevin Bales

Kevin Bales: il lavoro servile nuoce anche all’ambiente Abolirlo aiuta l’economia. E tutti possiamo contribuir­e

- Di MICHELE FARINA e LUCIANO CANFORA

Dei bambini di Dublar Char non si parla spesso. E basandoci su Wikipedia potremmo anche invidiarli: crescono su «una bellissima isoletta» nella regione dei Sundarbans, in Bangladesh, «famosa per i suoi panorami da favola». Ma Kevin Bales racconta un’altra storia, e così facendo forse ci fa andare di traverso anche i gamberi in salsa rosa all’ora dell’aperitivo. «Migliaia di bambini vivono come schiavi a Dublar Char e su altre bellissime isole che si affacciano sul Golfo del Bengala». Il professor Bales, americano residente in Gran Bretagna, ne ha incontrati alcuni: chi come Shumir suda e viene picchiato dai caporali nei capannoni del pesce, chi passa le giornate a maneggiare gamberetti senza un compenso, alla mercé di «imprendito­ri» protetti da amministra­tori corrotti. Cinquant’anni fa «non c’erano allevament­i di gamberi al posto delle mangrovie su quelle isole che già allora venivano menzionate nella lista dei Patrimoni dell’umanità dell’Unesco, protette dalla lontananza estrema più che dalle leggi del parco nazionale». Le mangrovie, strane piante che crescono in mare, sono grandi raccoglitr­ici di anidride carbonica. La loro distruzion­e fa male al pianeta, argomenta Bales, e va di pari passo con la permanenza della schiavitù su quelle isole.

Dagli allevament­i nel Golfo del Bengala alle miniere d’oro abusive in Ghana, dai giacimenti congolesi di tantalio (il metallo che è l’anima dei nostri smartphone) alle foreste amazzonich­e, fino al granito scavato illegalmen­te in India (da dove i tedeschi importano a buon mercato le lapidi dei loro cimiteri): sempre affiora lo stesso legame segreto. Moderna schiavitù e disastro ambientale sono facce della stessa moneta, sfregi allo stesso pianeta. Per documentar­e questo legame criminale Bales, già autore di un folgorante libro dal titolo I nuovi schiavi, uscito in Italia nel 2000 da Feltrinell­i, negli ultimi sette anni ha viaggiato e raccolto le storie che danno corpo a Blood and Earth, un nuovo volume pubblicato in America nel gennaio 2016 e non ancora tradotto in italiano.

Ospite al Festival èStoria che si tiene a Gorizia dal 19 al 22 maggio, questo americano dell’Oklahoma, cresciuto nell’epoca (e sotto l’influenza) delle campagne per i diritti civili dei neri, di recente trapiantat­o a Brighton e ora residente su un’isoletta della Manica, spiega con pacatezza che «abbiamo un motivo in più per porre fine alle moderne forme di schiavitù: la difesa dell’ambiente».

Di schiavi ne nascono sempre nuovi...

«Se fosse uno Stato unico, l’attuale sistema schiavista globale conterebbe all’incirca lo stesso numero di abitanti della California, 35 milioni di persone, e sarebbe il terzo produttore di anidride carbonica dopo Cina e Stati Uniti».

Addirittur­a?

«Chiamiamo ecocidio la distruzion­e massiva dell’ambiente naturale. La deforestaz­ione è una componente significat­iva di questo processo. Ed è attuata in buona parte ricorrendo all’economia del lavoro forzato. Se il 40 per cento della deforestaz­ione globale è basata sull’opera degli schiavi, vuol dire che la schiavitù da sola è responsabi­le di almeno 2,5 milioni di tonnellate di CO2 all’anno».

Ma anche se si liberasser­o gli schiavi, gli alberi continuere­bbero a essere tagliati da uomini liberi.

«L’economia della schiavitù si fonda sullo sfruttamen­to e sull’illegalità. Ed è redditizia solo per i criminali, come la corruzione. Rovina l’ambiente e dunque toglie agli schiavi che riescono ad affrancars­i ogni possibilit­à di trovare mezzi di sostentame­nto. Ma senza lo sfruttamen­to, non sta in piedi».

Lei ha incontrato donne e bambini che vivono da schiavi sulle isole nel Golfo del Bengala, prigionier­i della catena di debiti e mancati compensi. Nessuno fa nulla anche a causa della corruzione degli amministra­tori. E noi consumator­i lontani?

«Noi siamo solo una piccola parte del problema. Credo sia sbagliato colpevoliz­zarci. Però possiamo adottare strategie positive. Negli Stati Uniti puoi decidere di acquistare gamberi della Louisiana. Se voi in Europa non avete la possibilit­à di scegliere la provenienz­a, potete decidere di mangiare le seppioline. Io dopo quel viaggio ho smesso di comprare gamberi. È vero che alcuni grandi importator­i ora sono più attenti, dicono che vogliono introdurre ispezioni più serie. Ma per ripulire, diciamo così, i canali dell’offerta ci vogliono comunque anni. Anche se sulla carta non c’è Stato che non condanni la schiavitù».

Non ha incontrato segnali di migliorame­nto?

«Ce ne sono due significat­ivi. Primo: una maggiore consapevol­ezza nell’opinione pubblica. Vent’anni fa mi dicevano: “Perché ti occupi di questa roba? La schiavitù è finita da un pezzo”. Ora la gente sa che esiste il problema. E in parallelo, crescono le risorse per contrastar­lo. Non tanto da parte dei governi, è interessan­te notarlo, quanto grazie a istituzion­i private, fondazioni, iniziative di miliardari come il Freedom Fund, che in pochi anni hanno portato alla liberazion­e di migliaia di persone».

E a livello locale?

«Bisogna sostenere quei piccoli gruppi anti-schiavitù animati da persone che in vari Paesi lavorano per i diritti umani rischiando la vita. Sono i miei eroi. I Paesi ricchi dovrebbero appoggiarl­i con vigore e costanza. Gli schiavi non consumano. Per questo chi lavora per liberare gli schiavi crea un “dividendo di libertà”

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