Corriere della Sera - La Lettura
C’è vita nel ranch, laggiù in Colorado
«Crepuscolo» completa il trittico di Kent Haruf composto anche da «Benedizione» e «Canto della pianura». Un romanzo che conferma la mano straordinaria dell’autore, refrattario a sentimentalismi e colpi di teatro ma sottilissimo nel raccontare quelli che siamo. Quasi un testamento
Un buon romanzo rischia il successo, un romanzo straordinario l’oblio: se fosse vero il detto che Gertrude Stein confidò a Hemingway, un pomeriggio d’inverno nel suo salotto parigino, ci spiegheremmo perché l’Italia abbia impiegato anni a riscoprire Kent Haruf e la sua Trilogia della pianura. A sfatare la Stein ci ha pensato un editore come NN — appena nato e già importante — che ha portato nelle nostre librerie Benedizione, Canto della pianura e in questi giorni Crepuscolo, completando in Italia il trittico di un narratore che potrebbe fare le scarpe a Cormac McCarthy e sfidare a duello Faulkner. Era accaduto con Stoner che un capolavoro si incagliasse in un anfratto editoriale, e anche lì, dopo la rivelazione, si scatenò la meraviglia. Ritrovarsi di colpo un’opera di questo incantesimo è forse la letteratura della letteratura: nell’epoca editoriale del già visto qualcosa sbalordisce, permettendo una nuova fede. E un imperativo: mai stancarsi di aspettare i grandi libri.
Quando Haruf morì, due anni fa, l’America intuì di aver perso un autore in grado di raccontare come stanno le cose. La semplicità e l’ineluttabilità dei destini, il corso della nascita e della morte: così stanno le cose, e vanno scritte secondo la legge della normalità. L’uomo che sottostà all’uomo, talvolta a un dio, talvolta al caso. Rosicchiare felicità o buttarla via, spesso solo esistere. Crepuscolo è questo affanno di vita che si raccoglie a Holt, una cittadina del Colorado inventata da Haruf come microcosmo universale. L’aveva fatto Faulkner con Yoknapatawpha trasformando una geografia dell’io in uno luogo del noi, portando il lettore a dire: potrei. Potrei abitare qui, potrei benedire gli ultimi giorni di una persona viscerale, potrei essere una ragazza madre che vuole ricominciare, potrei vivere fino alla vecchiaia con mio fratello e non sentirmi solo.
Se Holt è il filo conduttore della trilogia, alcuni protagonisti non tornano in tutti i volumi. Così è per Dad Lewis che in Benedizione sta morendo e affronta gli ultimi momenti assieme alla moglie e alla figlia. Dad è rispettato dalla comunità, tutti in qualche modo lo vegliano, tutti sanno che lui sta decidendo se attendere la fine o vivere la fine. Haruf lascia al bivio il suo protagonista che non si è mai perdonato l’allontanamento da casa del figlio omosessuale: vuole incontrarlo prima di andarsene, a costo di rovistare tra le tenebre. Come quando, ancora in forza, aveva visto il suo bambino adolescente vestito da donna e non aveva saputo come affrontarlo, poi si era deciso, «Cristo, disse. Ma tu cosa sei?», l’aveva guardato a malapena e si era sentito dire «Sono soltanto tuo figlio. È tutto quello che sono».
È tutto quello che sono, la scrittura diventa questa verità. L’alfabeto di Haruf lacera e costringe il lettore a una tenerezza che si insinua anche in Canto della pianura, il suo secondo libro pubblicato in Italia: è una storia che traghetta alcune anime di Benedizione per fermarsi su Victoria Roubideaux, una ragazzina rimasta incinta troppo presto per i dettami provinciali. È stata cacciata dalla madre, vaga per Holt finché i due fratelli McPheron la accolgono nella fattoria in cui allevano bestiame e solitudini. Vivono tra loro da settanta anni, sanno tutto di vitelli e niente di donne. È l’occasione che li rimette al mondo, e che fa capire al lettore come i libri di questo narratore si parlino: la morte di Dad Lewis, la placenta di Victoria Roubideaux, il cerchio dell’esistenza che non trova pace per- ché non deve avere pace. Cosa manca? Un sentimento di mezzo, la fragilità della vecchiaia, che in Haruf è il preludio del ricominciare; Crepuscolo è il romanzo di questo riscatto.
Lo incarnano i due McPheron che sono di nuovo soli nella fattoria, Victoria si è appena trasferita con la bambina fuori Holt per studiare all’università; è la mattina in cui lei se n’è andata e loro si sentono più vecchi di sempre, sono certi che l’addio di Victoria sia il loro addio. Rimangono in cucina, «chini sul bancone a bere caffè (...) con tante cose in meno da fare adesso che lei se n’era andata, e con un vento che si stava alzando e iniziava a ululare fuori dalla casa». Haruf sa che questo è l’attimo che decide la resa o la resistenza. La cucina trattiene ancora la cura di Victoria, le tazze ordinate e il ripiano pulito, l’odore dello sformato preparato la sera prima, gli strofinacci impilati accanto alla dispensa. I segni, il ricordo, la salvezza che è stata. Anche la natura ha assorbito la mancanza, e come sempre anticipa l’uomo: il latrato del vento, la polvere delle strade, i tori e le giumente inquiete nei recinti, l’autunno tardivo. Non servono colpi di scena ma una maestria che regola l’assalto ordinario della vita, il crepuscolo non è altro che l’arrivo dell’imbrunire, o il principio della luce, dipende da come guardiamo. Sarà l’alba a sconvolgere i McPheron, proprio loro, che erano tanto avvezzi al buio.
Ognuno di questi libri appare un testamento personale e una dichiarazione di forza della letteratura contemporanea. Leggerli significa essere cittadini sperduti del mondo e approdare a Holt, finalmente a Holt, guidati da una scrittura del tutto allergica ai sentimentalismi e ai coup de théâtre, sempre devota ai legami silenziosi. In questi lacci che unificano, proprio qui, c’è il lascito di Kent Haruf: io sono con te, non importa come, e gli oggetti posseduti, gli animali accuditi, le storie trasmesse, persino il modo di lasciare una cucina dopo aver abbandonato una casa, ciascuna traccia è noi, e la nostra solitudine. Il singolo diventa tutti, anche nella memoria. È il codice di queste opere e del loro percorso editoriale italiano, risolto con passione da Eugenia Dubini e Gaia Mazzolini, scomparsa pochi mesi fa, e tradotte egregiamente da Fabio Cremonesi. Quando NN editore scrisse una lettera ad Haruf per convincerlo a pubblicare per un editore appena nato, non ci fu bisogno di persuasione: era lui a sentirsi grato per la fiducia, e per aver trovato un suo posto anche in Italia. Ed è questo che muove la Trilogia, ritrovarsi.
Sono destini in rincorsa, legati a loro modo con quello di Raymond McPheron che a un certo punto di Crepuscolo si trova al bancone di un locale di Holt. Per la prima volta è senza il fratello, sorseggia un liquore con aria impaurita, mentre una donna gli siede accanto. È lei, dopo molti tentennamenti, a rivolgergli la parola. Lui non sa se può, non ha mai provato, e sembra chiedere il permesso di questa felicità al Cielo. È il dio timido di Haruf, che sta sopra le sue creature, ma che non disdegna di barcollare con loro, e di innamorarsi. Così la sua meccanica celeste avvolge Raymond e noi tutti, minuscoli e sensibili, facendoci sentire parte di una salvezza.