Corriere della Sera - La Lettura

I neocontadi­ni

Umanesimo e agroecolog­ia per salvare la terra (e la Terra) L’utopia di Wilson e il manifesto di Pérez-Vitoria: siamo a rischio

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Il futuro dell’umanità sta nelle piccole colture o in una riserva naturale grande mezzo mondo: le tesi di due studiosi

Una r i s e r va nat ur a l e g r a nde mezzo mondo. Così il biologo e p r e mi o P u l i t z e r E d wa r d Osborne Wil s on, a uto re di Metà della terra (Codice Edizioni) propone di salvare la biosfera e l’umanità: creando una sorta di Arca di Noè terrestre, un’area selvaggia abitata da tutte le specie viventi e grande almeno il 50% del pianeta. Non un quarto, né un terzo, ma almeno la metà. Perché «per la prima volta nella storia — scrive — tra coloro che riescono a prevedere cosa avverrà tra più di un decennio si è sviluppata la convinzion­e che stiamo giocando un finale di partita globale». Secondo i calcoli degli scienziati, autori di esami biogeograf­ici dei principali habitat della Terra, solo superando la soglia indicata potremo assicurarc­i di salvare dall’estinzione l’80% delle attuali specie viventi.

Dopotutto la colpa del disastro ambientale è nostra e noi dobbiamo porvi rimedio. Scrive infatti Wilson: «Cos’è l’uomo? Un narratore di storie, un creatore di miti e un distruttor­e del mondo naturale. La mente della biosfera. E tuttavia arrogante, sconsidera­to, letalmente predispost­o a favorire se stesso, la sua tribù e i futuri a breve termine». Anche se, ammette, nella nostra opera di tutela del mondo non dobbiamo partire da zero.

Secondo il World Database on Protected Areas, progetto congiunto delle Nazioni Unite e dell’Internatio­nal Union for Conservati­on of Nature, le riserve naturali esistenti sono ben 167.500: 161 mila sulla terraferma e 6.500 marine. Occupano circa il 15% delle terre emerse e il 2,8% di mari e oceani. Per perseguire l’obiettivo di Wilson, quindi, si tratta di connettere le grandi aree incontamin­ate con corridoi naturali, in grado di collegare tra lo- ro oceani e continenti e di attraversa­re anche i Paesi più industrial­izzati. Solo così, scrive lo scienziato, potremo evitare l’Emerocene, l’era della solitudine, dedicata a una sola specie: la nostra. Un’epoca distopica in cui l’uomo vivrà in compagnia di animali addomestic­ati, di qualche fungo, batterio e alcune meduse, circondato da estesi territori coltivati.

Un incubo, insomma. Non molto lontano da quello paventato dall’economista e sociologa Silvia Pérez-Vitoria in Manifesto per un XXI secolo contadino (Jaca Book). Anche l’autrice intona una chiamata per l’umanità. Come Wilson, descrive gli esseri umani davanti a un bivio. Devono compiere una scelta radicale e rispondere a una domanda cruciale: il pane o lo smartphone? Ovvero: l’agricoltur­a o l’industria? Perché, spiega, se non rinunciamo oggi ad addomestic­are la natura secondo le esigenze della produzione industrial­e e le regole dell’economia, non potremo più tornare indietro e saremo destinati alla catastrofe, le cui principali conseguenz­e sono già in atto: inquinamen­to, cambiament­o climatico, fame nel mondo.

I numeri, inoltre, lo dimostrere­bbero. Nonostante la promessa dell’agricoltur­a industrial­e di sfamare tutta l’umanità, oggi soffre per la carenza di cibo circa un miliardo di individui. Di cui un buon 50%, secondo la Fao, sarebbe composto

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