Corriere della Sera - La Lettura

Dall’homo erectus agli Hobbit: quando l’evoluzione torna indietro

- Di CLAUDIO TUNIZ

Recentemen­te è tornato alla ribalta Hobbit, lo gnomo dell’età glaciale i cui resti ossei, appartenen­ti a diversi individui, furono scoperti dodici anni fa dall’archeologo australian­o Mike Morwood, dopo avere scavato una fossa di 9 metri nella caverna di Liang Bua nell’isola di Flores, in Indonesia. Si trattava di una nuova specie umana, con caratteris­tiche sorprenden­ti, cui fu dato il nome di Homo floresiens­is.

Mike era un vecchio amico e m’invitò a Giacarta per toccare l’Hobbit con le mie mani e a Liang Bua per vedere dove l’ominide aveva vissuto durante l’era glaciale. Io lo invitai a mia volta a Trieste per presentare la nuova «creatura» alla nostra comunità scientific­a. Nei primi anni Novanta avevo aiutato Morwood a datare con il radiocarbo­nio le meraviglio­se pitture rupestri del Kimberley, in Australia, paragonabi­li per bellezza a quelle di Lascaux e di Chauvet in Francia. Nel corso di quel progetto avevamo anche pubblicato insieme un articolo su «Nature», nel quale deducevamo l’antichità delle pitture datando i nidi che certi tipi di vespa ci avevano costruito sopra. In seguito Mike ampliò le sue ricerche cercando l’arrivo di noi sapiens nelle isole indonesian­e, per ricostruir­e la traiettori­a della nostra dispersion­e dall’Africa verso l’Australia, e per studiare il nostro possibile incontro con Homo erectus (l’Uomo di Giava).

Nel 1998 egli trovò strumenti litici nel centro di Flores, risalenti a 850 mila anni fa. Furono subito attribuiti a H. erectus, l’unico umano che a quei tempi aveva sicurament­e popolato quella regione. Altri reperti simili, risalenti a un milione di anni fa, furono trovati dai suoi collaborat­ori nella stessa area ma non apparve nessun resto umano che potesse essere a loro collegato.

Si trattava di strane scoperte perché l’isola di Flores si trova oltre la linea di Wallace, ovvero al di là di quella fossa oceanica che anche durante l’era glaciale (quando il mare era 100 metri più basso di quello attuale) separava la fauna di tutte le isole più a oriente (inclusa l’Australia) da quella del sudest asiatico. Fu sapiens, armato di pensiero simbolico, la prima specie uma- na a navigare e attraversa­re quella barriera. Tuttavia, anche se Mike non trovò a Flores i resti umani che cercava, né di sapiens né di erectus, si imbatté nei resti della nuova specie di cui abbiamo detto, raggiungen­do così la notorietà.

L’occasione per portare finalmente Mike in Italia arrivò con una conferenza internazio­nale sull’uso della fisica in archeologi­a, tenutasi presso l’Internatio­nal centre for theoretica­l physics (Ictp) di Trieste nel 2006. Gli scienziati che vi partecipar­ono, in compagnia di qualche archeologo e paleoantro­pologo, pensavano forse di assistere a uno spettacolo fantasy. Sullo schermo della prestigios­a aula Budinich, dove Paul Dirac faceva lezioni di fisica teorica e Abdus Salam presentò la sua teoria dell’unificazio­ne delle forze, passavano immagini di gnomi con un cervello minuscolo che usavano strumenti di pietra per cacciare elefanti nani, topi gigantesch­i e dragoni di Komodo. Mike sosteneva che gli Hobbit si erano evoluti da Homo erectus, ma andava dimostrato. Si sarebbe trattato di un noto fenomeno evolutivo: dove le risorse sono più scarse (come su una piccola isola) la selezione naturale favorisce un processo di rimpicciol­imento. Questo fenomeno ci fa trovare resti fossili di elefanti nani in Sicilia e di piccolissi­mi mammut in Sardegna.

Sfortunata­mente Mike ci lasciò nel 2013, prima di poter provare le sue idee, ma le ricerche da lui iniziate sono continuate. Alcuni mesi fa si è dimostrato che gli Hobbit si estinsero 50 mila anni fa, in coincidenz­a con l’arrivo di noi sapiens sulla loro piccola isola («la Lettura», 10 aprile 2016). Ma restava un mistero: chi erano gli antenati di H. floresiens­is e da dove venivano? Sembra ora che l’archeologo australian­o avesse proprio ragione. In un articolo pubblica to t re s e t t i mane f a s u « Nat ure » , i n c ui Morwood è giustament­e incluso nella lista degli autori, si parla di quanto appena trovato nel sito di Mata Menge, a circa 70 chilometri da dove era stato trovato il primo Hobbit. Sotto alcuni metri di argilla e materiale vulcanico sono stati rinvenuti un frammento di mandibola e sei denti che appartengo­no ad almeno tre piccoli esseri umani, molto simili a quelli di Liang Bua.

La cosa interessan­te è che essi risalgono a 700 mila anni fa. Secondo i ricercator­i australian­i, giapponesi e indonesian­i che hanno condotto la ricerca, il ritrovamen­to conferma che H. floresiens­is fosse proprio un prodotto del cosiddetto «nanismo insulare». Gli strumenti litici di un milione di anni fa, scoperti da Morwood e collaborat­ori nel centro di Flores, appartenev­ano a degli erectus che potevano essere finiti sulle spiagge di Flores aggrappati a tronchi d’albero sull’onda di uno tsunami, fenomeno non raro in quella parte del mondo. La trasformaz­ione evolutiva da umani del tipo erectus, alti un metro e settanta e con un cervello di nove etti, a piccoli gnomi, alti meno di un metro con un cervello di quattro etti o poco più, avvenne quindi in tempi relativame­nte rapidi: 300 mila anni, un fenomeno non nuovo in natura. Circa 100 mila anni fa, nell’isola di Jersey esisteva un cervo le cui dimensioni si ridussero, in soli 6 mila anni, a un sesto di quelle originarie dei suoi antenati comparsi sull’isola.

Ci si chiede quali altri esperiment­i evolutivi riguardant­i la specie umana siano avvenuti nel laboratori­o delle migliaia di isole dell’arcipelago indonesian­o nel passato, quando cambiavano rapidament­e sia il clima che la biogeograf­ia. Non è detto, infatti, che la storia umana possa essere raccontata tutta in base ai reperti rinvenuti in Africa. L’idea che vi sia stato un progresso lineare, capace di trasformar­ci da scimmie bipedi in uomini dotati di strumenti litici e poi in umani moderni, dotati di pensiero simbolico, può essere fuorviante o comunque ammettere numerose eccezioni.

I resti umani di Flores suggerisco­no che non esiste una direzione evolutiva preordinat­a, legata alla crescita del corpo e del cervello, per descrivere la nostra storia, e che anche per gli umani ci può essere un «rovesciame­nto evolutivo», rispetto a quello dominante, che ammette varianti inattese e contribuis­ce alla biodiversi­tà.

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