Corriere della Sera - La Lettura
Niente ci può salvare. Figurarsi i versi
La raccolta di Gian Mario Villalta non riconosce alla letteratura la possibilità di colmare l’assenza di speranza. Senza felicità, il cinismo appare più forte di qualunque fede
nei suoi libri precedenti, trova qui la propria ragione. Quella secchezza, quella luce chiara e ferma, quel tagliare i fili alla complicità emotiva, quel non cedere alla possibile seduzione della realtà, ben prima che a una scelta stilistica o a una strategia espressiva derivavano invece — ora lo sappiamo — da una oscura necessità, meglio ancora da una costrizione di natura esistenziale.
A ben vedere, però, da uomo pratico e concreto qual è Villalta intende fissare la natura della propria ferita e comprenderne i condizionamenti, più che ricostruirne il principio. Questo non è un libro sulle cause ma sulle conseguenze, sulle ricadute. Se lo si riduce all’osso, il rovello problematico che genera la sua poesia può essere riassunto così: com’è possibile vivere, darsi un presente e persino un orizzonte in assenza di una vera speranza? Com’è possibile dare credito all’esistenza quando ogni fibra fisica e mentale quel credito di felicità sembra negarlo e, anzi, il cinismo appare più forte di qualsiasi fede?
Ecco, queste poesie nascono giusto all’incrocio tra la consapevolezza del poeta della propria disillusione e l’attenzione portata al mondo dove vivono gli altri, tra il lavorio della mente (parola-tema anche qui centralissima, come già nel libro precedente) che distanzia, limita e cancella, e la semplice, nuda evidenza della vita che accade, che semplicemente è.«Siamo ancora ostaggi/ di qualche significato, ancora icone che un clic/ apre all’inganno/ di crederci veri e, nell’istante,/ eterni», scrive Villalta. Ma poi, proprio a partire da questo riconoscimento fondamentale, sono possibili persino imprevisti rovesciamenti: «Sa la speranza solo chi dispera»; o ancora: «Resterà,/ di questo giorno opaco come oro,/ il silenzio inoltrato/ in un ottobre storto, che sfinisce/ ogni cedere — mi ritorce più crudo/ il mio cinismo, e non mi crede».
Lungo i vari poemetti come fossero altrettante stazioni conoscitive, Villalta sembra allora circoscrivere la sua primaria disposizione esistenziale non per sconfessarla o superarla, ma per misurare le proprie forze e aprirsi, proprio a partire da quella, una prospettiva possibile. Anche attraverso Andrea Zanzotto il suo nume poetico è petrarchesco: non c’è spazio per la trasformazione, per la rinascita, quanto per la conoscenza di sé, per la consapevolezza di qualcosa che non potrà comunque cambiare. I dialoghi coi suoi principali maestri, Zanzotto, appunto, quindi Amedeo Giacomini e Fernando Bandini, il rapporto con la figlia, qualche ricordo iniziatico (la madre, il padre, il nonno che gli racconta la guerra), alcuni scorci e situazioni del paesaggio del suo Nordest: ogni dialogo, riflessione, racconto, dà luogo comunque a una presa d’atto che è anche un processo di orientamento.
Non è un caso che l’asse portante di questi poemetti vada trovato, anche più che nella narrazione, nell’argomentazione, e dunque nella sintassi, nelle conquiste e nel percorso stesso del pensiero.