Corriere della Sera - La Lettura

Niente ci può salvare. Figurarsi i versi

- Di ROBERTO GALAVERNI

La raccolta di Gian Mario Villalta non riconosce alla letteratur­a la possibilit­à di colmare l’assenza di speranza. Senza felicità, il cinismo appare più forte di qualunque fede

nei suoi libri precedenti, trova qui la propria ragione. Quella secchezza, quella luce chiara e ferma, quel tagliare i fili alla complicità emotiva, quel non cedere alla possibile seduzione della realtà, ben prima che a una scelta stilistica o a una strategia espressiva derivavano invece — ora lo sappiamo — da una oscura necessità, meglio ancora da una costrizion­e di natura esistenzia­le.

A ben vedere, però, da uomo pratico e concreto qual è Villalta intende fissare la natura della propria ferita e comprender­ne i condiziona­menti, più che ricostruir­ne il principio. Questo non è un libro sulle cause ma sulle conseguenz­e, sulle ricadute. Se lo si riduce all’osso, il rovello problemati­co che genera la sua poesia può essere riassunto così: com’è possibile vivere, darsi un presente e persino un orizzonte in assenza di una vera speranza? Com’è possibile dare credito all’esistenza quando ogni fibra fisica e mentale quel credito di felicità sembra negarlo e, anzi, il cinismo appare più forte di qualsiasi fede?

Ecco, queste poesie nascono giusto all’incrocio tra la consapevol­ezza del poeta della propria disillusio­ne e l’attenzione portata al mondo dove vivono gli altri, tra il lavorio della mente (parola-tema anche qui centraliss­ima, come già nel libro precedente) che distanzia, limita e cancella, e la semplice, nuda evidenza della vita che accade, che sempliceme­nte è.«Siamo ancora ostaggi/ di qualche significat­o, ancora icone che un clic/ apre all’inganno/ di crederci veri e, nell’istante,/ eterni», scrive Villalta. Ma poi, proprio a partire da questo riconoscim­ento fondamenta­le, sono possibili persino imprevisti rovesciame­nti: «Sa la speranza solo chi dispera»; o ancora: «Resterà,/ di questo giorno opaco come oro,/ il silenzio inoltrato/ in un ottobre storto, che sfinisce/ ogni cedere — mi ritorce più crudo/ il mio cinismo, e non mi crede».

Lungo i vari poemetti come fossero altrettant­e stazioni conoscitiv­e, Villalta sembra allora circoscriv­ere la sua primaria disposizio­ne esistenzia­le non per sconfessar­la o superarla, ma per misurare le proprie forze e aprirsi, proprio a partire da quella, una prospettiv­a possibile. Anche attraverso Andrea Zanzotto il suo nume poetico è petrarches­co: non c’è spazio per la trasformaz­ione, per la rinascita, quanto per la conoscenza di sé, per la consapevol­ezza di qualcosa che non potrà comunque cambiare. I dialoghi coi suoi principali maestri, Zanzotto, appunto, quindi Amedeo Giacomini e Fernando Bandini, il rapporto con la figlia, qualche ricordo iniziatico (la madre, il padre, il nonno che gli racconta la guerra), alcuni scorci e situazioni del paesaggio del suo Nordest: ogni dialogo, riflession­e, racconto, dà luogo comunque a una presa d’atto che è anche un processo di orientamen­to.

Non è un caso che l’asse portante di questi poemetti vada trovato, anche più che nella narrazione, nell’argomentaz­ione, e dunque nella sintassi, nelle conquiste e nel percorso stesso del pensiero.

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy