Corriere della Sera - La Lettura

Il lungo feeling con il romanzo

- Di ERMANNO PACCAGNINI

Non deve meraviglia­re che Isgrò consideri Manzoni tra i maggiori romanzieri europei. Perché è sin troppo facile ricordare che europeo Manzoni lo è stato sia come formazione (in mirabile equilibrio con la tradizione classica, italiana, e non solo) sia come fortuna. Non per nulla, in quella Francia nella cui cultura classicheg­giante entra a piedi uniti col Carmagnola, dichiarato da Fauriel «appartenen­te ormai alla letteratur­a europea» e che lascia traccia in Stendhal e Hugo, I promessi sposi appaiono da Baudry in edizione italiana già nel 1827, seguita subito da 3 traduzioni in 4 anni (con tracce a iosa persino in Madame Bovary). Quanto alla Germania, è Goethe a farsi curatore e prefatore delle Opere poetiche di quel Manzoni che «ha solamente un difetto: di non sapere egli stesso che grande poeta egli è»; un Goethe, e pure un Tieck, che stanno dietro le due traduzioni del romanzo. Due come quelle che compaiono negli Stati Uniti (con una delle prime recensioni che ha Poe quale autore indiziato). Del 1828 è poi la versione inglese; e la danese, che lascia tracce nel Violinista di Andersen, che ricava pure il libretto per il melodramma Nozze sul lago di Como. E così via; ricordando però che molti leggono il romanzo in italiano: come Puškin, che si sciroppa persino la Morale cattolica. E che dire dell’odierna rivalutazi­one del lungimiran­te saggio sulla Rivoluzion­e francese? Sempre ricordando che, con la Storia della colonna infame — non mera appendice ma parte integrante dei Promessi sposi che chiedono d’essere riletti alla sua luce — Manzoni ha anticipato le riflession­i di Adorno e Arendt sul banale funzionari­ato del Male.

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