Corriere della Sera - La Lettura
Jacopo, due opere quasi identiche del pittore che forse era un chirurgo
Come ogni anno la Milanesiana, accanto al percorso letterario (la nuova edizione è dedicata al tema della «Vanità») propone un itinerario artistico. In queste pagine proponiamo alcuni autori e alcuni appuntamenti, con esposizioni che «sconfinano» anche a Torino e a Firenze
La piccola tavola presentata alla Milanesiana (che misura 42 centimetri per 30) ha un fedele compagno, quasi un sosia, nella pinacoteca Carrara di Bergamo, che è firmata e datata, in un illusionistico cartellino, in un autentico trompe-l’oeil, IACOBVS DE VALENCIA PINXIT HOC OPVS 1487. Vi sono però alcune differenze. Per esempio, nel dipinto di Bergamo compare la rossa croce del nimbo, che non c’è invece nella tavola esposta alla Milanesiana. In entrambi i casi il busto di Cristo è collocato al di là di un parapetto, come già aveva fatto Antonello da Messina nel suo Salvator mundi, oggi a Londra, incominciato circa nel 1465 e terminato a Venezia dieci anni dopo, e che costituisce un precedente alle due tavole, anche, per quella di Bergamo, per via dell’ inganno ottico del cartellino incollato alla superficie dipinta, che costituisce un gioco complesso tra realtà e finzione. Nel dipinto che la Milanesiana propone non si assiste però a questa sfida dell’intelletto.
Jacopo era chiamato «da Valenza», ma non si sa bene il perché. Non era certamente di Valencia, in Spagna, ma non è neanche così sicuro che venisse da Valenza Po. Poteva essere lui il Magistro Jacobo de Valentia Lombardiae chyrurgo che il 22 maggio 1478 a Ceneda prestava una testimonianza? Ma come era passato da chirurgo a pittore? La conversione non era certamente avvenuta nelle Prealpi, lontano da Venezia, dove aveva imparato a dipingere nella cerchia di Bartolomeo e Alvise Vivarini, ai quali sarebbe rimasto fedele tutta la vita. Da loro aveva derivato, specialmente da Bartolomeo, una decisa semplificazione geometrica dei volumi e una costante tipologia del sacro. Tanto che, se prese qualcosa da Antonello, fu subito assimilato nel suo linguaggio scabro e asciutto.
Nelle due repliche del Cristo benedicente, o Salvator mundi, un tema penetrato in Italia dalle Fiandre e che un giorno avrebbe occupato Leonardo, del modello di Antonello Jacopo aveva aggirato il punto più difficile, ovvero quella gabbia prospettica delle dita che era stata una sfida per lo stesso Antonello. Inoltre, nell’esempio della Milanesiana, aveva rifiutato il fondo nero e aveva scelto invece un verde chiaro e luminoso, contro il quale risaltano le luci che brillano sui capelli ondulati di un maschio Cristo risorto che con gesto di voluta eleganza regge la piccola croce tenendola tra l’ indice e il pollice.
Forse Jacopo non tornò più a Venezia, da dove era partito almeno dal 1484, quando firmò la tavola nel Duomo di Ceneda (oggi Vittorio Veneto) nella quale sembra eccessivo cercare, nella figura di san Sebastiano, un’eco di Antonello, esempio invidiato e per lui inarrivabile. Per tutti gli anni a venire Jacopo non si spostò mai dal Bellunese e dal Feltrino, dove lasciò, sino al primo decennio del Cinquecento, l’accorata testimonianza di quanto aveva appreso negli anni giovanili, ma anche opere che, nella loro proclamata semplicità, sorprendono e attirano, come la Resurrezione nel museo di Castelvecchio a Verona, dove la confidenza con i montanari induce il pittore (anche chirurgo?) a dare perfetta forma sferica al gozzo di un soldato e dove, con inaspettata capacità, fa affiorare al di là di un ostacolo gli occhi smarriti di una donna, forse una delle tre venute al sepolcro. Come nelle due tavole con Cristo benedicente, i gesti sono come congelati e l’esasperazione volumetrica rende i corpi astratti.