Corriere della Sera - La Lettura
Geniale Livia, prima first lady
Sposa di un nemico di Ottaviano, ne divenne la consorte per 52 anni Infieriva sulla figliastra, consigliava il marito che poi forse avvelenò
Il regno di Augusto e dei suoi successori Giulio-Claudi attrae l’attenzione per l’abbondanza delle fonti letterarie e del materiale archeologico ed epigrafico, che ne fanno il periodo meglio documentato dell’antichità. Questa ricchezza permette di osservare gli imperatori attraverso lenti di vario tipo, ricostruendone non solo l’immagine ufficiale, i monumenti, e l’ideologia espressa nelle leggi o nella monetazione, ma anche il carattere dagli aneddoti tramandati dagli storici. Dopo avere immortalato Giulia, la figlia di Augusto, come «prima femminista di Roma», Lorenzo Braccesi si dedica alla prima first lady dell’impero, definita da Ovidio femina princeps e dal pronipote Caligola «Ulisse vestito da donna», che fu legata a Ottaviano Augusto da 52 anni di matrimonio, e influenzò insieme a lui uno snodo cruciale della storia d’Europa.
Il suo ritratto, fatto da maschi in una società patriarcale, è come quello di tutte le donne romane, evanescente. Angelo del focolare o disgregatrice di equilibri familiari, madre amorosa o sinistra matrigna, è dipinta negli Annali di Tacito come una politica scaltra e spietata che insanguina la casa di Augusto, il vero volto di un regime che aveva garantito la securitas a scapito della libertas, barattando la pax con la tranquillitas. Sull’attendibilità di Tacito per questo periodo si è molto discusso, da quando il suo massimo studioso, Ronald Syme, ipotizzò che il ritratto nero di Tiberio rappresentasse in filigrana l’imperatore Adriano, che Tacito non poteva attaccare apertamente. Braccesi sceglie di rivalutare Tacito, che sottopone però a nuovi e legittimi interrogativi, cercando di colmare, con ipotesi anche ardite, i vuoti nel mosaico delle fonti.
Discendente dalle due più nobili famiglie di Roma, i Claudi e i Livi Drusi, Livia sposa nel 38 a.C. Ottaviano, il figlio adottivo di Giulio Cesare, che fino a poco prima era stato nemico di lei e di suo marito, l’arrogante aristocratico Tiberio Claudio Nerone. Il padre di Livia, di ideali libertari, si era invece suicidato sul campo di Filippi dopo la sconfitta di Bruto e Cassio nel 42 a.C. Dopo la battaglia, Livia, appena sedicenne e già madre, ricercata insieme al marito, fugge a Napoli, in Sicilia e poi in Grecia, portandosi appresso il figlio Tiberio ancora in fasce. Per lo storico Cassio Dione «accadde così un fatto stranissimo: questa Livia, che allora fuggiva da Ottaviano, in seguito lo sposò, e questo Tiberio, che allora andava esule con i genitori, ne raccolse l’eredità imperiale». Forse a causa di questi travagli Tiberio svilupperà una dipendenza patologica dalla madre, da cui cerca di prendere le distanze, giungendo a odiarla, e Livia sarà ossessivamente protettiva con il figlio, non tollerando di vederlo messo in ombra da altri aspiranti al potere imperiale.
Nel 38 a.C. Ottaviano ripudia la seconda moglie Scribonia il giorno stesso che questa dà alla luce una figlia femmina, Giulia. Forse è il sesso della bambina che spinge Ottaviano a unirsi con Livia, nella speranza di avere da lei un erede, oltre che per cementare, lui borghese, la nobiltà della sua casa, e anche, concordano le fonti, per una reale attrazione passionale. Ma Livia è già sposata e in avanzato stato di gravidanza, e secondo il diritto romano non può contrarre nuove unioni prima di avere partorito nella casa del marito. Secondo Tacito, Ottaviano non aspetta e la porta via «con tanta fretta che non le lasciò neppure il tempo di partorire, conducendola gravida in casa sua». A noi moderni appare strano il comportamento del primo marito di Livia, che la consegna in sposa al secondo come un padre, intervenendo al banchetto nuziale e incrementandole pure la dote. Quando questi muore, Ottaviano diviene tutore dei piccoli Tiberio e Druso, che crescono sul Palatino con la sorellastra Giulia, una ragazza affascinante e sofisticata. Sulla loro severissima educazione vigila Livia, particolarmente arcigna con Giulia, che le ruba la scena. Fine politica, dal fiuto non inferiore a quello del suo augusto consorte, Livia incarna tutte le virtù esemplari propagandate dal nuovo regime. Custode del focolare, moglie irreprensibile, modello di austerità per l’intera società del tempo, è per Augusto la compagna di tutta la vita. Nessuno, neppure tra gli autori più pettegoli, la incolpa mai di violazioni alla morale, a differenza dei tanti e risaputi tradimenti del marito. Perché allora Livia, che già aveva avuto due figli, non ne concepisce altri con Augusto?
Per Braccesi la donna evita con cura altre gravidanze per non compromettere la posizione di Tiberio. L’infertilità potrebbe anche essere dovuta a un evento traumatico cui le fonti accennano, un aborto che molto dispiacque ad Augusto. Ma allora perché Augusto non divorzia per la terza volta cercandosi una donna in grado di dargli l’erede che tanto desiderava? Probabilmente Livia era diventata una presenza indispensabile e una necessità politica, dentro e fuori le mura domestiche. Che Augusto si avvalesse del consiglio della moglie è risaputo. Seneca definisce Livia «l’avvocato», e Svetonio afferma che Augusto non parlava con lei di argomenti importanti senza avere preso prima appunti in un taccuino. I due si scambiavano continuamente messaggi e biglietti, fra cui sono famosi quelli, conservati da lei in un baule, in cui Augusto criticava il pessimo carattere di Tiberio. Livia certo non regala ad Augusto una vita familiare pacifica. Nell’ombra e in segreto, infierisce sulla figliastra Giulia e sui di lei figli, che ostacolavano la successione di Tiberio. Gli eredi Gaio e Lucio Cesari muoiono giovani, il secondo probabilmente di veleno, le due Giulie, madre e figlia, travolte da accuse di adulterio, sono deportate a Ventotene e alle Tremiti. Agrippa Postumo, l’ultimo rampollo del grande Agrippa, nato dopo la sua morte, è confinato a Pianosa. Dei figli di Giulia sopravvive la sola Agrippina, madre di Caligola e nonna di Nerone.
Augusto muore il 19 agosto del 14 d.C. a settantasei anni, un’età avanzata per quei tempi. Tuttavia, circola subito la diceria che il suo decesso non sia stato accidentale. Secondo un pettegolezzo riportato da Svetonio, Livia, temendo che il consorte richiamasse Agrippa Postumo dall’esilio per associarlo al potere, avrebbe cosparso di veleno alcuni fichi che si trovavano ancora sugli alberi dai quali Augusto era solito coglierli di persona; quindi, mentre lei stessa mangiava quelli sani, avrebbe offerto a lui quelli avvelenati. Due terzi dell’eredità toccarono a Tiberio e tutto il resto a Livia, nonostante una legge vietasse alle donne di ereditare più di centomila sesterzi.
Braccesi ipotizza che una mano femminile abbia ritoccato al rialzo la somma che Augusto destinava alla moglie.