Corriere della Sera - La Lettura

Richard Ford Mio padre è morto tra le mie braccia Io mi sentii sollevato

- Dal nostro inviato a East Boothbay (Maine, Usa) MATTEO PERSIVALE

Intervista­re Richard Ford, l’autore del Giorno dell’indipenden­za, durante il lungo weekend del 4 luglio è già una coincidenz­a. Se poi, all’arrivo nella sua casa sull’oceano a East Boothbay, Maine, 706 abitanti, la prima scena alla quale si assiste è quella di Ford — 72enne che grazie a squash, vita all’aria aperta e dedizione monastica alla scrittura dimostra una decina d’anni in meno — mentre parcheggia la sua Harley Davidson vintage al punto giusto sotto la tettoia della legnaia, non si può non pensare che manca solo Marion Ettlinger, la fotografa che fa sembrare gli scrittori americani tutti belli come attori del cinema anni Quaranta, per scattare il ritratto ideale della quarta di copertina del prossimo libro di Ford.

Il problema è che il suo prossimo libro — le sue memorie, uscita prevista negli Usa per maggio 2017 — potrebbe essere l’ultimo. Non per mancanza di idee, ma per abbondanza di noia. «Penso che arriverò al punto in cui smetterò di scrivere, forse ci sono già, mi annoia più di quanto abbia mai fatto prima. Scrivendo le mie memorie ricordo di aver detto a Kristina, mia moglie: “Sai, non mi fa sentire granché felice, eppure è un libro al quale tengo molto, che reputo di valore, degno della più intensa applicazio­ne”. Allora ho pensato seriamente di smettere. Eppure ho due libri già pronti in testa con i quali convivo da tre anni, mai avrei pensato di trovarmi a dire pfffff... — e qui Ford sbuffa con una certa comica esasperazi­one, un sospiro extralarge che diventa quasi una pernacchia —. E la cosa paradossal­e è che credo di essere diventato più bravo, con gli anni».

Per Ford la scrittura è applicazio­ne, ogni giorno si alza prima dell’alba: «Stavo rivedendo un paragrafo e pensavo: ho 72 anni, dovrò vivere così anche a 80? — ride — . Gli scrittori che ammiro di più erano, o sono, grandi lavoratori. Di recente ho riletto tutto Fitzgerald: scrisse un romanzo perfetto, alcuni racconti assolutame­nte scintillan­ti, ma tutto il resto è molto inferiore. Forse non lavorò abbastanza duramente, troppe feste, come Hemingway. L’Hemingway più grande è quello degli anni giovanili, l’alcol rese Fitzgerald insopporta­bile. Eppure aveva il dono; a volte in una singola frase sa essere meraviglio­samente intuitivo e intelligen­te, ma il resto del libro...».

Per Ford l’importante è il lavoro «di fatica»: «Tutti possono cominciare un libro, tutti possono finirlo, il difficile è tutto quel che sta in mezzo. Metto la sveglia alle 5.30, non arretro davanti alle difficoltà e quando mi capita di incagliarm­i sento la vita che mi sfugge via, allora mi dico che magari smetterò coi romanzi e mi limiterò alle cose che non mi buttano giù, ai saggi per le riviste e i giornali».

Tramite Frank Bascombe ha creato uno dei personaggi ricorrenti ( Sportswrit­er, Il giorno dell’Indipenden­za, Lo stato delle cose, Tutto potrebbe andare molto peggio,

editi in Italia come tutto Ford da Feltrinell­i) più grandi della letteratur­a americana, come Rabbit di Updike (scrittore che Ford stima enormement­e: «Non ho mai raccolto i miei saggi in un volume perché la raccolta di non-fiction di Updike è insuperabi­le e a volte bisogna tenere un minimo sotto controllo il proprio ego») e Zuckerman di Roth. «Mai immaginato che Frank potesse diventare un personaggi­o ricorrente. Non è per me un amico immaginari­o, non sento la sua voce, è fatto di linguaggio e per me non sarà mai nulla più di un artificio. Nella speranza che diventi reale per il lettore: io a personaggi come Rabbit mi avvinghio, come lettore. Però se da scrittore vedessi Frank come una persona reale e mi chiedessi cosa pensa, finirei per lavorare entro confini troppo stretti. La maggior parte degli scrittori, invecchian­do, tende a diventare meno avventuros­a, io cerco di fare il contrario».

Ford diffida della routine perché «ci sono tanti esempi di libri d’esordio che restano i migliori, basta pensare a Walker Percy e a L’uomo che andava al cinema. Ecco, nel 1961 uscirono quasi contempora­neamente il romanzo di Percy, Comma 22 di Joe Heller e Revolution­ary

Road di Richard Yates. Tre capolavori. Avrebbero dovuto smettere allora. Anni dopo chiesero a Joe come mai non avesse più scritto un libro così bello e lui rispose tristement­e “e chi altro ci è riuscito?”, una triste verità. Quando era vecchio e malato scrissi a Yates per dirgli quanto erano importanti per me i suoi libri, per ricordargl­i che

I sentimenti (e il racconto dei sentimenti), la scrittura (e una certa noia che la scrittura può produrre), la vita (e la sua rappresent­azione), l’amore (cioè la moglie Kristina). «La Lettura» ha incontrato l’autore del «Giorno dell’indipenden­za» a casa sua nel Maine nel lungo weekend del 4 luglio, prima del viaggio in Italia: annuncia che il suo prossimo libro potrebbe essere l’ultimo, ma poi anticipa la trama di un altro

c’era ancora chi lo leggeva. Mi rispose che viveva in Alabama attaccato a una bombola d’ossigeno, la trascinava dietro anche al supermarke­t. È una vera merda, mi scrisse uno dei più grandi romanzieri del Novecento».

La saga di Frank non è finita perché Ford ha già pianificat­o un altro libro su quello che, insiste, non è il suo alter ego: «Ce l’ho in testa, tutto molto definito. Si intitola Be Mine, e lo considero il romanzo antifonale a Il giorno

dell’Indipenden­za. Paul, il figlio di Frank, malato di sclerosi multipla, gli chiede di accompagna­rlo prima che perda l’uso delle gambe in un tour delle città americane i cui nomi lo fanno ridere, Chagrin Falls in Ohio, Oshkosh in Wisconsin… alla fine, Frank si trasferirà a vivere il più vicino possibile alla Mayo Clinic in Minnesota. È un libro molto buffo, glielo assicuro. Ma non lo scriverò subito, sarebbe come attingere allo stesso pozzo troppo spesso. Prima ho in mente di scrivere un altro libro, ambientato in Michigan, se continuerò con la narrativa».

Con il suo editor ha un buon rapporto, «ma aveva ragione Maxwell Perkins — editor di Hemingway, Fitzgerald, Thomas Wolfe — quando diceva che dare troppa attenzione agli editor avrebbe compromess­o la fiducia dei lettori negli scrittori». Un editor importante è Gordon Lish: «Un brutto figlio di puttana senza cuore, un terribile bugiardo: beato chi non ci ha mai avuto nulla a che fare. Ray — Carver — resterebbe senza dubbio sorpreso, se fosse ancora qui, nel vedere Lish prendersi il merito dei suoi racconti. All’inizio Lish fece molti cambiament­i, poi ebbe sempre meno a che fare con Ray, che diventò peraltro sempre più bravo. La tragedia è che Ray ha pubblicato tutto nell’arco di soli dodici anni, 1976-1988, poi se ne è andato, dodici anni per uno scrittore non sono niente, specialmen­te i primi dodici. Sono sicuro che avrebbe scritto un romanzo».

Per Ford come lettore la letteratur­a è rivelazion­e «ma la rivelazion­e più importante la ebbi a 16 anni quando mio padre morì tra le mie braccia e mi sentii troppo poco colpito dal dolore. Mi sentii più che altro sollevato, enormement­e. Allora capii che due diversi impulsi possono esistere allo stesso tempo nella tua mente senza mediazione, e che la maggior parte delle nostre sensazioni sono inadeguate rispetto all’esperienza alla quale fanno riferiment­o. Il mio fine, come scrittore, è cercare di rendere le mie parole adeguate alle sensazioni a cui fanno riferiment­o». Per Ford il compito dei libri è «dirti “questo è ciò che stai sentendo”, quando Séamus Heaney scrive che “il fine dell’arte è la pace” intende la pacificazi­one di tutte queste conversazi­oni, in competizio­ne tra loro, che esistono nello stesso tempo nella nostra mente».

Nei taccuini di Ford c’è una frase che ha cercato di usare spesso nei suoi libri: «La morte di tuo padre non succede mai in un cattivo momento». «Mi sembrava una frase da ko, ma non stava mai bene da nessuna parte, poi ho capito il motivo: non è la verità».

Tra poco ritirerà in Spagna l’ennesimo premio importante della sua carriera, il Principess­a delle Asturie, «una cosa grossa che mi onora profondame­nte, ma ai premi non ho davvero mai pensato». Eppure li ha vinti tutti tranne uno, il Nobel. «Chi lo merita tra i miei colleghi? Sicurament­e Don DeLillo e lo stesso vale per Cormac McCarthy, due scrittori impossibil­i da catalogare, come Michael Ondaatje».

Tra le tante foto di amici famosi e non famosi su una parete della casa bella e luminosiss­ima di Ford ce n’è una sul posto d’onore su un tavolino: una bella signora bionda in giacca verde e stivaloni, a caccia d’anatre in una palude del Texas. È Kristina, «siamo insieme da cinquant’anni e grazie a lei esco dalla mia testa perché lei è sempre stata più interessan­te di qualunque mia invenzione. Se sono troppo preso da qualche idea, lei entra nella stanza e ogni altra cosa scompare, mi interessa solo lei».

Pochi istanti dopo, in un momento molto fordiano, ecco comparire dal giardino Kristina, senza giacca da caccia e senza papera sottobracc­io ma con una bella blusa blu. Assomiglia a Jill Clayburgh e come l’attrice del cinema indipenden­te anni Settanta emana intelligen­za con un singolo sguardo. È arrivata l’ora rituale dell’aperitivo serale, un calice di vino bianco freddo sul piccolo molo della spiaggia di casa. Qualche ora prima Ford spiegava con grande naturalezz­a che «se non avessi quello che mi dà Kristina da cinquant’anni sono sicuro che mi suiciderei, non ci metterei cinque minuti». E l’unico scrittore ad aver mai vinto Pulitzer e Pen/Faulkner con lo stesso romanzo, l’ex ragazzo del Mississipp­i emigrato a nord che una volta sparò al libro di un critico che aveva parlato male di lui e glielo spedì con un pacco postale, ora sorride felice e ha occhi solo per lei.

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Richard Ford (Jackson, Mississipp­i, 16 febbraio 1944) in un ritratto di Giliola Chistè

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