Corriere della Sera - La Lettura

E mio figlio mi disse: «Se rinasco faccio il gatto»

All’inizio c’erano le storie orali che mi raccontava­no i miei genitori — mia madre più portata alla fiction, mio padre alla nonfiction. Durante la leva militare presi a raccontarm­i delle favole per sopravvive­re. Poi incomincia­i a narrarle a mio figlio, ch

- Di ETGAR KERET

Della mia storia personale si può parlare come di una storia di guerra continua. Chi racconta storie ha però un privilegio: può decidere quali aspetti della propria vita sono importanti e quali tengono insieme stagioni tra loro diverse. È vero: sono nato nella guerra del ’67, per quella del ’73 andavo alle Elementari, facevo le Superiori con la guerra del Libano e la mia vita avanza tra una guerra e l’altra. Eppure, credo che la nostra libertà di esseri umani sia di poterci scegliere una biografia alternativ­a.

Quanto a memorie di guerra, vi dirò che uno dei miei più vividi ricordi d’infanzia risale alla guerra dello Yom Kippur. Era il ’73. La guerra scoppiò nel Giorno dell’Espiazione, prendendo Israele di sorpresa. Tutti i soldati vennero improvvisa­mente chiamati al fronte e ricordo una camionetta militare sotto casa che aspetta mio padre, ed io che dall’altra stanza lo guardo in cucina prendere un foglio e dire a mia madre: «Se muoio in questa guerra, vendi l’appartamen­to. Dovrebbe valerti 40 mila lire», la valuta dell’epoca. «A questo tizio devi dare cinquemila lire, a questo quattromil­a, a quest’altro seimila. Ti rimarranno ottomila lire». E mia madre: «E dove vado a vivere con i bambini?». Mio padre la guarda e dice: «Sei una donna intelligen­te, te la caverai!». Poi scende verso la camionetta, saluta con la mano e se ne va. Questo è uno dei ricordi più vividi della mia infanzia: quest’idea che la vita sia estremamen­te fluida e trasparent­e; che un secondo si sia vivi e quello dopo si possa salire su una camionetta e non tornare più. Ma, ripeto, la biografia di guerra non è quella che mi sono scelto. Qui vorrei riflettere sull’importanza che ha per me il racconto orale. E questo non perché pensi che il racconto orale sia in qualche modo più importante della letteratur­a scritta: il mio è solo un tentativo di fare una sorta di confession­e.

Per tutta la mia vita da scrittore, interrogat­o su quali autori mi avessero maggiormen­te influenzat­o, facevo sempre i nomi di, ad esempio, Kafka o Bashevis Singer. In questo modo avevo l’impression­e di fare quello che ci si aspettava da me, ma anche di non dire tutta la verità. Credo, infatti, che le storie che hanno formato la mia identità, non solo come scrittore, ma come essere umano, siano nate molto prima.

In realtà l’idea di scrivere un testo sull’importanza del racconto orale per me è un ossimoro: come fare un film porno sull’importanza di mantenere la verginità. Le due cose non vanno molto d’accordo.

Entrambi i miei genitori erano superstiti dell’Olocausto e nessuno dei due ha avuto un’infanzia normale. Mia madre si è vista uccidere davanti agli occhi la madre e il fratello e ha perso tutta la famiglia nel ghetto di Varsavia. Mio padre è sopravviss­uto alla guerra con i genitori, rimanendo nascosto per due anni in una buca scavata nel terreno. Quando poi si sono fatti una famiglia — quello che durante la guerra era il loro sogno più grande, qualcosa di apparentem­ente irraggiung­ibile: sopravvive­re e mantenersi fisicament­e e psicologic­amente integri per poter un giorno incontrare un’altra persona con cui condivider­e la vita ed avere dei figli — ebbene, una volta realizzato quel sogno volevano essere i migliori genitori al mondo. Ero ancora molto piccolo quando mia madre mi disse che di solito il modo in cui si è genitori dipende dall’infanzia: se questa è stata felice, si imita e riproduce il comportame­nto dei propri genitori; se invece è stata orribile, si cerca di fare l’esatto contrario. Nel mio caso, ero un bam- bino quando mia madre mi disse: «Non ho punti di riferiment­o: i miei sono morti troppo presto perché sappia come deve comportars­i un genitore, quindi con te farò degli esperiment­i e, se faccio qualcosa di sbagliato, dimmelo e cercherò di fare in altro modo».

Non le ho mai detto di fare in altro modo, perché il sistema che proponeva mi sembrava perfettame­nte logico, e così mi sembra ancor oggi, per quanto mi renda conto che non è normale. Per esempio, a casa nostra c’era una regola molto semplice: se pioveva non si andava a scuola, perché, diceva mia madre, «non insegnano nulla di così importante per cui valga la pena bagnarsi». E aveva creato un’infinità di altre regole e leggi che, m’immagino, erano logiche per un bambino come me, cresciuto in un suo mondo immaginari­o.

Uno dei ricordi più vividi che mia madre conservava dei suoi genitori era quello delle storie della buona notte. Entrambi i miei genitori erano molto istruiti: leggevano in sei lingue diverse e casa nostra traboccava di libri. Ma quello che mia madre ricordava erano le storie orali che sua madre e suo padre le raccontava­no nel ghetto, dove non c’era modo di procurarsi libri per bambini. Così, ogni sera dovevano inventarsi una nuova storia e per tutto il giorno andavano raccoglien­do idee, pensieri e immagini che di sera si sarebbero materializ­zati in quella nuova storia, la storia del giorno, che era una vera e propria manifestaz­ione d’amore.

Quando mise su famiglia, lei volle fare lo stesso. Ovviamente sapeva che sarebbe potuta andare nella libreria più vicina e comprare Alice nel paese delle meraviglie o Winnie-thePooh o un qualunque altro classico, ma per lei leggere una storia da un libro era un po’ come ordinare una pizza per cena. È tipico dei genitori pigri. «Un genitore pigro», diceva con spregio «compra la storia di qualcun

altro, perché è troppo pigro per creare una storia speciale per il proprio figlio». E il fatto che quelle storie fossero orali e avessero una vita sola, perché poi svanivano nel mondo come sculture di ghiaccio, rendeva quelle storie speciali sia per lei sia per me.

Mia madre aveva uno straordina­rio talento immaginati­vo e creava storie con estrema facilità: storie legate sempre agli avveniment­i del giorno, a qualche dettaglio minuto che, un po’ come la foto di un ostaggio con il giornale, ne provava l’attualità e la freschezza, come a dire che non erano vecchie storie congelate e scongelate per l’occasione, ma che erano appena state sfornate.

Le storie di mia madre mi piacevano tantissimo, ma capitava che dovesse lavorare fino a tardi o che non si sentisse bene, e allora toccava a mio padre raccontarm­i qualcosa prima di andare a letto. Siccome in casa non c’erano libri per bambini, il sistema a cui doveva ricorrere era lo stesso, solo che mio padre non sapeva inventare storie. Sicché, quando era il suo turno, mi raccontava sempre storie che in sostanza erano cose che gli erano capitate. Fu quella la mia prima introduzio­ne alla «nonfiction». Se le storie di mia madre erano un insegnamen­to sul potere dell’immaginazi­one e, in fondo, su come il mondo in cui viviamo sia illimitato, perché si può sempre immaginare qualcosa di nuovo e allargare gli spazi, e su come in realtà tutti i muri che ci circondano siano trasparent­i e li si possa attraversa­re, le storie di mio padre mi insegnavan­o altro. Queste parlavano sempre di persone che ai miei occhi di bambino sembravano comportars­i male; lo scopo del racconto non era però quello di giustifica­rle, ma di immedesima­rsi e comprender­le. Alla fine, qualunque cosa facessero, i personaggi di tutte le sue storie risultavan­o umani. Se possibile, queste storie mi piacevano persino di più, forse anche perché erano più rare e perché vedevo che mio padre sudava nel raccontarl­e.

Infatti, mentre mia madre si trovava completame­nte a suo agio in quella situazione, lui ne era terrorizza­to. Le storie che mio padre raccontava avevano tutte una cosa in comune: si svolgevano sempre in un bordello e i protagonis­ti erano invariabil­mente prostitute, mafiosi e ubriaconi.

Avevo cinque anni e se gli chiedevo: «Cos’è una prostituta?», lui mi rispondeva: «Una prostituta è una persona che viene pagata per ascoltare i problemi di altre persone». Quando chiedevo: «E i mafiosi cosa sono?», lui diceva: «Beh, i mafiosi sono persone che riscuotono l’affitto da tutti, anche da chi non è loro affittuari­o». E quando gli chiedevo cosa fosse un ubriacone, la sua riposta era: «Ah, sono persone con una malattia per cui più bevono e più sono felici».

Già all’età di cinque anni mi trovavo di fronte a un dilemma profession­ale: non sapevo se da grande volevo essere un prostituto ubriacone o un ubriacone mafioso, perché dalle storie di mio padre entrambe queste scelte profession­ali sembravano molto promettent­i. All’età di dieci anni, però, mi resi conto che quello che mio padre mi aveva detto non solo non era vero, ma non era adatto a un bambino. Così, lo presi da parte e gli parlai molto seriamente. Gli dissi: «Non avresti dovuto raccontarm­i quelle storie. Mi devi spiegare perché l’hai fatto». E mio padre disse: «Quando ero steso nel letto al tuo fianco, di primo acchito ti avrei raccontato una storia della mia infanzia, ma poi pensavo: “Che storia dovrei scegliere? Dovrei raccontart­i la storia di come i nazisti catturaron­o mia sorella e la torturano a morte perché si rifiutava di dire dov’ero nascosto? Dovrei raccontart­i la storia di come, quando venni tirato fuori dalla buca nel terreno, avevo muscoli così rattrappit­i che non riuscivo a muovermi?”. Non mi sembrava che queste fossero delle buone storie per un bambino di cinque anni. Volevo raccontart­i una storia di speranza e felicità, così ho sfogliato la mia vita finché non ho raggiunto quella parte in cui a guerra finita cercai di venire in Israele, ma anche questa storia era triste, perché in Israele venni catturato dai britannici e rispedito in Europa, a Cipro, in quanto immigrante illegale. Subito dopo mi unii all’Irgun, un movimento clandestin­o che combatteva i britannici e siccome mi era proibito entrare in Israele l’unico modo in cui potevo dare un contributo era comprare armi da fuoco per combattere i britannici. Con questo compito fui mandato in Italia, a Reggio Calabria. Qui la mafia ci forniva le armi da contrabban­dare in Israele, ma siccome non potevo permetterm­i un affitto, dormivo nei giardini pubblici. A quelli di Cosa Nostra la cosa non piaceva e mi dissero: “Per noi non è decoroso trattare con i senzatetto, fare affari con chi dorme nei parchi”. Così, invece dei giardini pubblici, mi proposero di andare a stare in un bordello di loro proprietà. E aggiunsero: “Non devi pagare l’affitto, ma se arriva un cliente, esci e torna più tardi”. Qui ho passato otto mesi della mia vita — disse mio padre — gli otto mesi in cui sono tornato ad essere un essere umano. Per la prima volta nella mia vita non dovevo nascondere il fatto di essere ebreo; per la prima volta mi addormenta­vo e risvegliav­o al mattino e non più per la paura nel cuore della notte; per la prima volta potevo andare alla ricerca dell’umanità tutt’intorno a me».

E disse anche: «È vero, le persone che mi stavano intorno non erano perfette, ma rispetto ai nazisti era tutta brava gente».

Credo che dal buco nero dell’Olocausto sia uscito questo sguardo, questo modo di raccontare storie nel tentativo di umanizzare quanto ci circonda, che mi insegnò qual era il ruolo del racconto: non favoleggia­re, abbellire la realtà, truccarla un po’ per darle un aspetto migliore, ma prendere la vita così com’è, per quanto brutta, e al suo interno trovare pur sempre qualcosa di umano che dia un senso al nostro stare al mondo.

In una delle storie di mio padre c’era una donna. Ero un bambino, ma ricordo che di quella donna passò almeno quindici minuti a descrivere gli occhi. Aveva bellissimi occhi blu, così belli che chiunque li vedeva veniva preso dalla voglia di spogliarsi di tutto e tuf-

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LE ILLUSTRAZI­ONI DI QUESTE PAGINE SONO DI FABIO DELVÒ

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