Corriere della Sera - La Lettura
Settimo Torinese l’operosa, aspirante Capitale culturale
Non abbiamo regge né basiliche Ma siamo un modello del saper fare
Il Comune alle porte del capoluogo piemontese si candida per diventare Capitale italiana della cultura 2018. Contro Orvieto, Spoleto e Caserta (tra gli altri). «Abbiamo costruito uno sviluppo ecosostenibile, con un nuovo turismo nelle fabbriche»
Lo scheletro dell’altoforno delle Acciaierie Lucchini contro le guglie cinquecentesche del Duomo di Orvieto. Il Terzo Mondo del più grande centro di accoglienza per migranti del Nord Italia contro il Festival dei Due mondi. La leggerezza del volo dei gabbiani evocati da Primo Levi contro il peso della memoria storica di Vittorio Veneto. Il primo stabilimento L’Oréal a emissioni zero, raro modello di ecosostenibilità, contro la Cattedrale di Palermo, gioiello dell’Unesco. La Spina di Renzo Piano contro il Colle dell’Infinito di Giacomo Leopardi. La gara è aperta.
Tra incantevoli città d’arte, come Recanati e Caserta, collaudate mete turistiche, come Ostuni e Spoleto, e riconosciute oasi ambientali o archeologiche, come le valli del Comacchio ed Ercolano, spunta un’insolita pretendente alla fascia di Capitale italiana della cultura 2018, dopo Mantova (2016) e Pistoia (2017): Settimo Torinese.
Non è famosa per i suoi pregi paesaggistici, non è calcolata nel patrimonio dell’umanità, non ha regge né basiliche, non è stata teatro di storiche battaglie, non è frequentata da fenicotteri rosa e non risultano resti di insediamenti etruschi nel sottosuolo. Non si affaccia su baie incontaminate e la principale vista di cui gode è sull’autostrada Milano-Torino. Ma qualcosa da insegnare, comunque ce l’ha.
Per esempio, come si possa trasformare una fabbrica dismessa di vernici, la storica Paramatti, in un’avveniristica biblioteca di tre piani, con terrazza panoramica, un catalogo virtuale di un milione e mezzo di titoli, 140 mila utenti all’anno e perfino una stazione radio al suo interno.
Può illustrare, Settimo Torinese, anche quale sensazionale acustica riesca a offrire a un’orchestra di ottoni uno stabilimento di pneumatici. O come si possa ricavare un Ecomuseo da un mulino industriale dell’800. Oppure come si produca teatro sperimentale di alto livello, scritturando la periferia dell’umanità: i disabili, gli immigrati, gli emarginati.
Il dossier è stato presentato al ministero dei Beni Culturali nei termini prescritti, il 30 giugno, sotto un titolo provocatorio, «Settimo Torinese: perché no?»; e accompagnato da un memento mutuato dal romanzo La chiave a stella di Primo Levi che, in quanto pendolare (a rovescio) per 27 anni tra Torino e Settimo, dove dirigeva la Siva (Società industriale vernici e affini), non si adombrerebbe di essere considerato uno sponsor postumo dell’ardita candidatura: «Perché quando c’è la fame uno si fa furbo».
Fame c’è stata, certo, ma anche tanto ingegno nella saggia trasformazione dell’antico borgo di lavandaie, lungo il rio Freidano, in sobborgo di operai e, poi, in polo industriale strategico della seconda metà del secolo scorso: «Molte delle nostre nonne — racconta il vicesindaco trentenne, Elena Piastra, rampolla dell’immigrazione marchigiana — ritiravano i panni il martedì a Torino, li lavavano nel fiume il mercoledì e il giovedì, poi li stendevano ad asciugare nei campi e, il lunedì successivo, li riportavano a Torino».
Alla fine degli anni Cinquanta quelle distese agricole dove sgocciolava al sole il bucato del capoluogo, si coprirono abbastanza rapidamente di capannoni, magazzini, officine, case popolari. L’industria siderurgica cercava nuovi spazi per ben tre acciaierie, cui si aggiungevano due fabbriche di vernici, un colosso farmaceutico come Farmitalia, la Pirelli, L’Oréal, la Lavazza, oltre a un’apprezzata produzione artigianale di penne a sfera e stilografiche, sotto i marchi Aurora e Carioca.
Arrivò manodopera dal Polesine e da tutto il Meridione: in poco più di cinque anni gli abitanti triplicarono, da 13 mila a 43 mila. Si con-