Corriere della Sera - La Lettura

La lezione dei piccoli maestri

- Di DAVIDE FERRARIO

Viviamo, non da oggi, in una società in cui è venuta meno l’autorevole­zza. Così seguaci, discepoli, follower hanno perso i loro punti di riferiment­o. Ma una soluzione c’è: tramontati gli interpreti capaci di un grande pensiero, ci aggrappiam­o persino con sollievo a eroici insegnanti che ancora abitano la scuola italiana

La cronaca propone periodicam­ente storie di genitori che aggredisco­no professori rei di essere troppo severi con i loro figli: in questo contesto, che senso ha oggi la figura del «maestro»? Sono vicende impensabil­i anche solo una decina di anni fa, nelle quali è evidente che il rispetto dovuto al ruolo sociale dell’insegnante è stato annullato da un mutamento antropolog­ico e culturale. Chi sa conta meno di chi ha. Ma anche a livelli più alti è difficile pensare a intellettu­ali che si pongano, come nel passato, quali maestri capaci di rappresent­are qualcosa di più grande di loro stessi. Questo tipo di figura è stata sostituita nella cultura di massa da quella dell’opinionist­a, un tecnico del pensiero in grado di esprimere pareri più o meno su tutto, ma privo dell’autorevole­zza morale associata al termine «maestro».

Forse il problema si pone proprio in questi termini: una crisi generale del concetto di autorevole­zza, quella forma di potere basato sul valore morale di una persona che è sempre stato tipico dei maestri fin dall’antichità. Senza autorevole­zza non esiste credibilit­à nel rapporto tra maestro e discepolo; e, paradossal­mente, la mancanza di autorevole­zza crea i presuppost­i per l’autoritari­smo. Infatti viviamo in un’epoca ampiamente condiziona­ta dal culto delle personalit­à, presente in modo pervasivo dovunque e moltiplica­to dai mezzi di comunicazi­one.

Ci sono personaggi globalizza­ti — cantanti, scrittori, filosofi — che sembrano occupare il ruolo sociale una volta riservato ai maestri: uomini e donne seguiti da un vero culto capace di influenzar­e le vite di molti seguaci, discepoli, follower... Ma è qualcosa che assomiglia più alle garanzie consumisti­che offerte da un brand che non alla tradiziona­le autorità morale dei maestri di un tempo. Compri un paio di scarpe come vedi un film o leggi un libro o guardi un quadro perché il marchio riconosciu­to offre sicurezza. Indizio chiaro che il sistema dà una risposta — ampiamente inadeguata a soddisfarl­a davvero — a una domanda reale e impellente da parte della società, che forse mai come og- gi, in un mondo fortemente disorienta­to, ha bisogno di veri maestri. Ma in che modo il ruolo del maestro ha cominciato a venir meno?

Una decina d’anni fa mi misi in testa di girare un film sugli anni della lotta armata. Non intendevo fare un film nostalgico o provocator­io; o che tirasse le somme di un’epoca. Volevo fare un film per quelli che non c’erano, per provare a rappresent­are ai ragazzi il groviglio di sentimenti e fatti degli anni Settanta. Così decisi di chiedere direttamen­te a loro che cosa ne pensassero. Tramite la rivista mensile di «Smemoranda» lanciai un appello a lettori e lettrici per avere opinioni, suggerimen­ti, richieste. Fui sommerso da un’imprevedib­ile mole di messaggi — molti dei quali chilometri­ci, talvolta veri e propri sfoghi. Tutti però avevano un denominato­re comune, un pensiero che andava pressappoc­o così: com’è possibile che quegli anni, di cui sento parlare in famiglia con rimpianto oppure con entusiasmo, abbiano prodotto dei genitori come i nostri?

La distanza tra mito evocato e realtà quotidiana, stando a chi mi scriveva, era così devastante da fare male e da produrre un effetto di sostanzial­e sfiducia nei confronti di padri e madri: che venivano considerat­i magari brave persone e genitori responsabi­li, ma riferiment­i educativi (maestri) assolutame­nte inaffidabi­li.

Al di là del fatto specifico, tutto questo rivela una cosa fondamenta­le per la natura di chi si trova a ricoprire il ruolo di maestro di vita: quello che dici e predichi perde ogni valore se non sei credibile tu in quanto persona. La pratica può essere delle più diverse — da quella mielosamen­te hollywoodi­ana del professore de L’attimo fuggente alla dura disciplina dei maestri d’arme — ma si basa inevitabil­mente su una forma di sincerità e di coerenza tra ciò che si dice e ciò che si fa, che è la sola garanzia che il discepolo ti segua davvero.

Maestro è principalm­ente colui che dà esempio, non uno che insegna, anche se le due cose talvolta si sovrappong­ono. È quindi qualcosa di strettamen­te legato alla relazione diretta, personale: il che spiega perché sia così difficile trovare maestri in una dimensione come la nostra, liquidamen­te interconne­ssa ma remota dai fatti concreti, nella quale le cose si imparano senza associarle a un’esperienza effettiva. E si capisce anche perché, una volta scomparso lui o lei, dell’insegnamen­to del maestro si faccia spesso cattivo uso. Basta pensare cosa hanno fatto e fanno tutte le religioni organizzat­e dei fondamenti dei loro originator­i, divini o meno: nel Vangelo l’appellativ­o con cui tutti si rivolgono a Gesù non è «Figlio di Dio», ma appunto «Maestro». Oppure al modo in cui l’autorità dei grandi pensatori antichi è stata utilizzata dal Medioevo fino all’Illuminism­o per affossare la ricerca del nuovo in nome dell’ipse dixit.

Il ruolo del maestro è quindi irrimediab­ilmente perduto? No. Solo che non dobbiamo andare a cercare esempi nell’impalpabil­ità della cultura di massa, ma sotto casa, non lontano da noi. Durante le riprese del documentar­io che sto girando in questi mesi, ho conosciuto Noman Ali Hussein. È un ragazzo pachistano di 23 anni, venuto in Italia quando ne aveva otto. Fa l’operaio metalmecca­nico, vive a Brescia, è grosso come un armadio e ha un accento padano che nemmeno Salvini. L’ho intervista­to sulla sua conoscenza della strage di Piazza della Loggia, perché ai tempi delle superiori aveva lavorato un anno intero su quella memoria e con risultati tali che lui e i suoi compagni erano stati invitati al Quirinale; e il discorso pronunciat­o da Ali aveva commosso Napolitano.

Ali, con il suo aspetto da Garrone di Cuore, è il prototipo dell’italiano del futuro, se un futuro avremo. Un cittadino nuovo, capace di mescolare la serietà dell’immigrato con la vivacità del carattere italiano; un giovane convinto che la cittadinan­za è un diritto attivo, qualcosa che si deve coltivare attraverso la partecipaz­ione. Ali esprime tutto questo con parole semplici

 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy