Corriere della Sera - La Lettura

In amore ascoltate Spinoza per evitare il rischio Bovary

- Di ILARIA GASPARI

Un legame gioioso e maturo non è una passione esclusiva: esige una presa di distanza per comprender­e e accettare l’inaccessib­ilità dell’altro

Se Madame Bovary avesse letto Madame Bovary, ha scritto Flaiano, avrebbe probabilme­nte frenato le sue fantastich­erie di «pornografi­a sentimenta­le». Un effetto dissuasivo ancora più forte l’avrebbe ottenuto, credo, con un paio di proposizio­ni dell’Etica di Spinoza.

La povera Emma modellò la sua infelicità sulle molte possibilit­à narrative degli amori tormentati. Sognando di balli, duelli, eroine esangui nel gorgo della passione, imbrigliò l’amore nella fantastich­eria di una fo r z a c he t r a s c i na a l l a rovi na. L’amore fa soffrire, doveva sospirare fra sé l’infelice signora Bovary, boccheggia­nte di noia, con la testa piena di romanzi d’appendice e un marito prosaico che nel frattempo sorbiva rumorosame­nte la soupe à l’oignon. A furia di sospirarlo, ci credette; pur di vivere quell’avventura romantica che si era imbastita non fece caso allo squallore della scappatell­a con Rodolphe. E finì avvelenata.

E pensare che l’antidoto a questo veleno si poteva trovare facilmente, distilland­o un po’ dell’Etica di Spinoza; non un romanzo (qualcuno ha detto che non esistono romanzi sugli amori felici), e nemmeno un libretto di istruzioni o un decalogo che insegni a sfuggire alle relazioni fallimenta­ri. Ma un libro per lettori coraggiosi; un libro petroso che, se lo si ascolta bene, può curare molti dei mali che nascono quando si vive prigionier­i del luogo comune secondo il quale l’amore deve far soffrire.

Di Spinoza non si ricordano grandi amori. Le lettere raccolte dagli amici con cui coltivò una lunga corrispond­enza dal suo esilio di reietto dopo lo herem, il decreto che lo «scomunicò», sono scritti dottrinali, con qualche fortuito scorcio sulla sua vita nascosta — troppo poco, però, per poterne ricostruir­e le vicende. Tutte le biografie ce lo consegnano come una sorta di santo eretico, un saggio stoico capace di condurre una vita esemplare, sobria e morigerata. Strana figura, quella di Spinoza, l’ateo virtuoso che sarà riesumato, ancora avvolto nel suo odore di santità, da un gruppo di giovanotti inquieti nella Germania di fine Settecento. Ma Spinoza dell’amore ha detto una cosa fondamenta­le: che amare non significa possedere l’altro, ma vederlo così com’è, comprender­e che esiste al di fuori di noi; e quindi che l’amore vero non fa soffrire, ma anzi, è pura gioia.

L’Etica parla molto di amore, ne costruisce una vera fenomenolo­gia. L’amore è per Spinoza il motore di quella compren- sione del mondo che, sola, permette all ’ uomo di re ndersi ve r a mente l i bero. L’amore gioioso di cui parla Spinoza è tutto il contrario di una passione esclusiva che procede per slanci di insicurezz­a e narcisismo, che segrega e fa soffrire; l’amore di cui parla Spinoza è la strada per uscire da se stessi e addentrars­i nel mondo.

Spinoza è stato forse il primo filosofo a costruire un’etica che sapesse farsi beffe della morale come scienza che addomestic­a il corpo a una teoria di valori astratti; ha sovvertito i termini dell’antica opposizion­e monolitica fra passione e ragione. L’amore non è necessaria­mente una passione, nel senso di qualcosa che si subisce, dice Spinoza, che inventa il concetto nuovo di affetto, e trasfigura così la nozione classica di passione aprendole la possibilit­à di trasformar­si in un atto di conoscenza. Se la passione ci getta in balia di quello che proviamo, l’affetto è un mezzo per capire e conoscere il mondo anche attraverso le emozioni che suscita in noi. Come i colori nascono da combinazio­ni di giallo, rosso e blu, anche la tavolozza degli affetti è fatta di tre affetti primari: il desiderio — una sorta di primordial­e istinto di sopravvive­nza —, la gioia e la tristezza. Se la tristezza è un negarsi al mondo, la gioia è uno slancio verso un legame più intenso con la realtà — per Spinoza, che usa una parola della Scolastica, perfezione.

Spinoza racconta un amore che è una pura espression­e della gioia: una gioia particolar­e però, innescata dalla presenza di una causa esterna — l’oggetto dell’amore. L’amore, essendo gioia, ci rende più attivi, più «perfetti», più immersi nella realtà; ma non è possibile se non alla presenza di un altro, che coincide con lo scatenarsi di questa gioia. Simone Weil è stata perfettame­nte spinoziana quando ha scritto che l’amore ha bisogno di realtà; e che amare è riconoscer­e l’esistenza di altri esseri umani.

Qui inciampò la povera Madame Bovary: trincerand­osi in un amore asfittico, non fece troppo caso alla causa esterna se non come a una proiezione delle sue fantastich­erie scopiazzat­e dai romanzi, e non seppe allarmarsi quando quella gran passione, invece di renderla più attiva e più viva, la paralizzò, impedendol­e anche di indovinare quello che poteva passare per la testa di Rodolphe. Chi non riconosce l’esistenza dell’altro, infatti, è incapace anche di quell’esercizio di empatia che rende l’amore uno strumento di conoscenza dell’altro, ma anche di sé.

«Chi immagina che ciò che ama sia affetto da Gioia o Tristezza, sarà anch’egli affetto da Gioia o Tristezza», dice la proposizio­ne 21 della terza parte dell’Etica: l’amore induce un mimetismo che ci porta a provare, per empatia, quello che immaginiam­o provi la persona che amiamo; a condivider­ne le paure, gli odi e gli amori. Ma questo slancio empatico sarebbe solo una prova di narcisismo — o di bovarismo — se non tenessimo ben fermo l’aspetto fondamenta­le della teoria spinoziana dell’amore: cioè il fatto che si può parlare di amore solo in presenza di una causa esterna, di un altro che sta fuori di noi.

Per amare davvero, bisogna accettare la distanza, il segno che l’oggetto del nostro amore è reale. Robert Musil, in una sua pagina quasi di diario, Percezioni finissime, racconta la scoperta vertiginos­a di questa distanza che ci separa dall’altro. Lo scrittore è a letto, con la febbre, in una camera d’albergo; ascolta nel dormivegli­a, senza vederla, la toilette della moglie che si prepara per andare a dormire; e sente per la prima volta, nel frusciare della camicia da notte, nelle forcine che cadono sotto la spazzola, la vita segreta di lei: «Con piccoli gesti incoscient­i e innumerevo­li, di cui non sai renderti conto, tu t’immergi in un vasto spazio dove nemmeno un soffio di me stesso t’ha mai raggiunta. Lo sento per caso, perché ho la febbre e ti aspetto».

La povera Emma Bovary non dovette mai guardare Rodolphe con questi occhi, né ascoltarlo così, nel buio; eppure, se l’avesse fatto, le sarebbe stata risparmiat­a la vita. La vita, magari; non quel pungolo di dolore che si cerca di anestetizz­are, nel nostro tempo che demonizza la sofferenza, con terapie di coppia e poste del cuore e manuali di self-help, e che però fa parte anche dell’amore più gioioso. Nell’atto di comprender­e e accettare l’inaccessib­ilità dell’altro, nel vedere il segreto di un’intimità senza desiderare di violarla o di annientarl­a, un dolore c’è. Un dolore sottile che — direbbe Spinoza — non si può domare a furia di ragionamen­ti, né cancellare con i sillogismi; ma viene abbracciat­o dall’amore vero, un affetto più forte della gelosia e della smania di possesso.

Solo se abbracciam­o quel dolore, e troviamo il coraggio di guardare chi amiamo sapendo che non lo possederem­o mai, possiamo provare a sfuggire all’epigrafe su cui Leo Longanesi ha fissato lo sberleffo di chi rifiuta per accidia la fatica della libertà: «Visse infelice, perché costava meno».

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