Corriere della Sera - La Lettura

Fuga da attaccapan­ni e tosaerba

- Di ERMANNO PACCAGNINI

Titolo, ambientazi­one, struttura parrebbero a tutta prima far di La primavera di Gordon Copperny jr di Matteo Cellini un romanzo lontanissi­mo dal Cate, io del suo esordio, premiato col Campiello Opera Prima. E per molti aspetti lo è, col suo racconto che ha quale protagonis­ta l’undicenne Gordon che, in seguito a una rapina mal riuscita da parte di due balordi, grazie anche alla casualità dell’entrata in scena di tale Steve McCboom, un povero diavolo che vende tosaerba di seconda mano, ma che riesce a risolvere la situazione, se ne va da casa con quest’ultimo e la borsa dei dollari su una scassatiss­ima Plymouth Voyager SE celeste.

Un ragazzino ben contento di quanto gli sta succedendo, perché nella ricca casa del più importante costruttor­e d’attaccapan­ni d’America si sentiva un estraneo. Da una parte sta infatti il padre Lowell tutto preso solo dalla sua azienda; dall’altra la madre Angela, elevata da ex operaia a moglie in quanto necessaria «fattrice» dell’erede, ma tenacement­e nostalgica di Jeremy, suo primo amore, cui dedica lettere che consegna a un quaderno di ricette di cucina, da una delle quali affiora l’ipotesi che sia quest’ultimo il vero padre di Gordon.

Così un inizio narrativo da inferno familiare — con Gordon impegnato a catalogare le continue dimentican­ze di manifestaz­ioni d’affetto paterno, culminate nel regalo sì di un pesce come desiderato da Gordon, non p e rò ro s s o , b e ns ì u na t i nca pescata dal padre che ne ha persino dimenticat­o l’amo in bocca — lascia spazio per qualche momento a un andamento da thriller con risvolti comici grazie ai pasticcion­i fratelli Mancuso; per poi tradursi in un romanzo che coniuga il picaresco con la formazione; e approdare a un finale dal doppio volto: al tempo stesso dolce, per Gordon, e agro ma con un pizzico di ironia per Steve: e comunque nel comune destino di ricomincia­re e a riprovarci, questa volta però con la piena coscienza di quanto stanno facendo. Perché è soprattutt­o questo il lungo viaggio di Steve e Gordon con la scassata «signora Plymouth», autentico personaggi­o che «tossisce e borbotta», attravers o l e pi ù ce l e br i I nte r s t a te e Highway d’America: una sorta di Easy Rider di formazione. Un viaggio di reciproca conoscenza e di graduale reciproca accettazio­ne, sì che lo stesso Steve, in più occasioni tentato di convincere Gordon a tornarsene a casa, quando questo sta per accadere, non se la sente di abbandonar­lo; salvo che alla fine, una volta intervenut­a per entrambi la piena accettazio­ne di sé, e di conseguenz­a degli altri. Anche perché il viaggio, pur nella sua caratteriz­zazione insieme di fuga — da se stesso, dai continui fallimenti e dai fantasmi del passato per Steve; dalla grettezza d’un mondo familiare per Gordon —, e di quella che il ragazzo definisce «la più bella vacanza della mia vita», con vi-

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