Corriere della Sera - La Lettura
Aymé, viaggio sul fondo della Francia più profonda
Racconti Sei narrazioni fantastiche sono l’occasione per scoprire un autore schivo, lontano dal mondo letterario. Molto amato nel suo Paese, è stato anche detestato per l’amicizia con Céline e Brasillach
Dei suoi diciassette romanzi due soli sono apparsi in italiano: nel 1962 Tatiana (in realtà Les tiroirs de l’inconnu del 1960) e proprio nel 1960 La giumenta verde che era del 1933. Quando più di trent’anni dopo La giumenta verde fu di nuovo tradotto, Massimo Raffaeli osservò come Marcel Aymé in Italia, a parte poche altre occasioni minori, fosse sconosciuto. E tale è rimasto. A riproporlo è oggi Carlo Mazza Galanti, un giovane francesista di valore. Lo ripropone con Martin il romanziere: il libro contiene sei racconti che al pari di La giumenta verde si potrebbero ascrivere alla letteratura fantastica. Su La giumenta verde ho però i miei dubbi: di fantastico non c’è che un trucco.
La storia che Aymé ci narra si svolge sotto gli occhi, per così dire, di una cavalla dipinta tanti anni prima e il cui colore brilla non solo per virtù del pennello ma anche del liquido seminale che l’autore vi spruzzò. Tale liquido offre alla cavalla la facoltà di vedere e, in più, di pensare. Ed ecco che in appendice ad alcuni dei diciassette capitoli del libro, la giumenta commenta le vicissitudini narrate. Essa ovviamente è la voce dell’autore, è cioè la voce della cognizione in più, della consapevolezza, del buon senso. A sorvegliare e quasi a dominare, è proprio il buon senso: che è la vera natura di Aymé e se si vuole la sua qualità.
La storia narrata ne La giumenta verde è quella, tutta schematica, di un contrasto tra fratelli che pure si vogliono bene: Ferdinand il veterinario è rigido, ligio a un costume di vita moderato, ai limiti del bigottismo. Honoré il maniscalco è l’esatto contrario: è un gaudente, un libertario, un uomo che ama i piaceri della vita e a essi si abbandona — non disdegnando che ciò facciano tutti gli altri, compresi i giovani figli. Le pagine del rapporto, sensuale, quasi carnale, tra Honoré e sua figlia sono di gran lunga le più belle dell’intero romanzo. È in esse che si coglie al massimo grado di (veritiera) intensità la discendenza di Aymé ( Germinal di Zola); ed è in esse che si ritrovano atmosfere che ci erano familiari in altri autori, dall’Alphonse Dau- det di Lettres de mon moulin allo Jean Giono di Uno di Baumugnes o Que ma joie demeure.
Un’eco di fraternità la si potrebbe cogliere perfino nel romanzo di Alain- Fournier, Le grand Meaulnes. Stiamo parlando insomma della Francia profonda e indubbiamente Aymé è nel fondo di questa profondità, è quello che più d’ogni altro si è limitato a esplorare ciò che vedeva, senza aver voglia di sublimare, idealizzare, circonfondere d’una qualche sentimentale luce. Perfino Céline, che gli fu amico (abitavano l’uno di fronte all’altro, in Montmartre), con i suoi eccessi negativi alla fine lo supera in quanto a idealizzazione. A proposito di Céline è giusto ricordare che Aymé, benché abbia rifiutato nel 1949 la Legion d’onore e dieci anni dopo l’Académie française, fu tanto amato quanto detestato (in Francia) per aver collaborato durante l’occupazione tedesca a riviste come «Je suis partout» e per aver difeso Robert Brasillach, quando fu condannato a morte.
Molti anni dopo Aymé scrisse una commedia, La tête des autres, proprio contro la pena capitale. Era in realtà, o così ci appare oggi, un uomo della provincia, un uomo di campagna — fondamentalmente schivo, alieno al mondo letterario. Quelle che possiamo giudicare virtù potevano diventare confini. Quelli che sono i suoi evidenti limiti possono diventare qualità, anche di notevole livello (come nelle pagine cui accennavo a proposito de La giumenta verde) o come nei racconti scelti si direbbe con sapiente e quasi igienica cura da Mazza Galanti. In Marcel Aymé le idee non sono idee, sono trovate, escogitazioni, intuizioni fulminanti. Come esse si sviluppino ha un’importanza relativa.
Torno ancora una volta a La giumenta verde, dove appaiono continuamente avverbi di chiusura (abbastanza, piuttosto) e le aperture di racconto sembrano casuali – quasi fossero d’obbligo perché questo è un romanzo, non già un semplice racconto.
Nei racconti questo modo di rapportarsi alla propria materia è ovviamente scongiurato, quasi sempre. In «La carta del tempo» l’idea (la trovata) deriva probabilmente dalla necessità del razionamento degli anni di guerra. Qui ciò che si arriva a razionare è la quantità di vita. Viene promulgata una legge in base alla quale, in specie i «consumatori improduttivi», come gli scrittori, i vecchi, i pensionati, gli ereditieri, i disoccupati, dovranno astenersi dalla vita per una quantità di giorni, stabilita su una carta offerta come fosse un passaporto per un aldilà temporaneo. Il racconto è in forma di diario. Il punto culminate è quando si arriva al mercato nero dei tagliandi: a causa del quale per esilarante e ultima conseguenza i più ricchi si troveranno a disporre di carte che gli consentiranno di vivere «fino al 66 giugno».
In «La grazia» il signor Duperrier in virtù della sua santa vita si ritrova a uscire circondato in testa da un’aureola luminosa. Essa è motivo di sorpresa, di disappunto, di scandalo. Duperrier allora se la copre con un cappello dalle falde larghe che a un funerale non potrà fare a meno di togliersi dalla testa. Sono i vicini a costringerlo a peccare per togliersi di dosso quell’imbarazzante distintivo. Ma Duperrier a peccare non ci riesce, o meglio il distintivo non se ne va. Non se ne va neppure quando arriva all’ultimo peccato possibile, la lussuria. La moglie di Duperrier esulta, la castità avrà finalmente termine. Ma il marito non vuole offenderla in alcun modo, piuttosto che «risolvere la questione in famiglia» finirà tra le braccia delle prostitute.
In «Ricaduta» c’è di nuovo una legge speciale. Viene promulgato l’anno di ventiquattro mesi. Di colpo le età di ognuno si dimezzano. Josette, diciotto anni, innamorata di Bertrand di ventitré e sul punto di conoscere i piaceri della carne, si ritrova ad avere nove anni: lei nove e lui già un adolescente che di lei non ne vuole più sapere. In Josette il distacco di Bertrand sca- tenerà impulsi violenti: pistola alla mano (con l’aiuto di un fratello più grande) costringerà Bertrand a spogliarsi affinché mostri quali attributi egli davvero abbia di cui vantarsi.
La protagonista de «La Sabina» è una Sabina cui è stato concesso il dono dell’ubiquità (che non è, io credo, al contrario di Mazza Galanti, un dono mistico ma appunto una simpatica e paradossale trovata). Sabina è nello stesso momento nel casto letto coniugale e tra le appassionate braccia del suo primo amante: finché non capirà che di amanti ne potrebbe (ne potrà) avere ben più di uno. Arriverà a migliaia, a decine di migliaia, arriverà alla dissoluzione.
Ho lasciato per ultimo «Martin il romanziere»: è il più classico (o il più ovvio) ma anche il più eloquente per cogliere con simpatia (con eleganza) uno scrittore fondamentalmente immobile. Dire conservatore o reazionario, come lo si è sempre creduto, mi sembra riduttivo e semplicistico. Immobile, Aymé lo è — laggiù, nel fondo della campagna. Ma mentre lo vediamo a colloquio con il suo editore, travestito da quel Martin che ha la cattiva abitudine di far morire i suoi personaggi, anche i più amabili; e mentre lo vediamo ricevere in visita proprio costoro, i personaggi che gli piacciono e quelli che non gli piacciono, quelli che vengono a chiedergli di risparmiarli o, chissà, di eliminarne uno che dà noia a colui che chiede (sempre contro il parere dell’editore, il quale suppone che un romanzo a lieto fine avrebbe miglior sorte commerciale) — così, in questo momento ci viene in mente la foto che apre il libro e che non solo indica la statura leggendario-folclorica di cui Aymé gode in Francia ma che ne coglie l’essenza di uomo e di scrittore. Aymé, lassù a Montmartre, è scolpito di profilo mentre per sempre attraversa un muro: nello stesso tempo di qua e di là, a metà fermo e a metà in movimento.
Trovate In «La carta del tempo» disoccupati, vecchi, ereditieri improduttivi dovranno astenersi dalla vita per un certo numero di giorni