Corriere della Sera - La Lettura
Vestivamo alla longobarda
L’archeologo Yuri Godino ricostruisce il vestiario del popolo germanico, seguendo la pratica della living history: indagine scientifica, verifica delle fonti e passione popolare
Il mantello corto, sorretto da una fibula decorata o da un laccio, la tunica a forma di trapezio, la cintura cui sono appese le armi, i pantaloni sotto il ginocchio, strisce di tessuto attorno ai polpacci, scarpe semiaperte. Rosso, blu, giallo, i colori prediletti, la cui intensità varia a seconda dello status sociale. Lino e lana, i tessuti più usati, dalle trame ricercate.
È un identikit originale e dettagliato quello tracciato nel libro L’abbigliamento maschile longobardo, pubblicato poche settimane fa in digitale dalla casa editrice riminese Bookstones, finito al primo posto tra i titoli più venduti nel «negozio» online StreetLib (gruppo Simplicissimus), segnalato tra le «novità più interessanti di Amazon in Storia medievale». L’autore è Yuri Godino, 33 anni, di Pinerolo, ora a Porte, sempre nella val Chisone (Torino), laureato in Archeologia medievale a Siena, specializzato nel Paesaggio e nell’Alto Medioevo italiano. Già collaboratore con la Soprintendenza per i Beni archeologici della Toscana, si occupa dal 2006 di living history. E in questo contesto ha scritto il suo libro.
«La living history, “storia vivente”, è una pratica nata spontaneamente, dal basso — spiega lo studioso —, in cui si indossano abiti, si rappresentano attività, si impersonano eventi di una certa epoca. Spesso viene confusa con le saghe o il folklore ma, a differenza di questi ultimi, che hanno come fine l’intrattenimento, la living history si basa sulla ricerca, la competenza e, quindi, la riproduzione fedele di un periodo». Ovviamente, a vari livelli: «Si va dalla rievocazione, che dà solo un’idea di un periodo storico, alla ricostruzione, molto più approfondita, fino a usare gli strumenti dell’archeologia sperimentale, mettendo in pratica le antiche tecniche di fabbricazione e verificando materialmente il processo produttivo dei manufatti».
Ecco allora che il libro di Godino — nato dal progetto Presenze Longobarde dell’Associazione AReS (Archeologia, Reenactment e Storia), cofondata dall’autore — aggiunge all’entusiasmo e alla passione popolare delle rappresentazioni d’epoca, fonti e documenti: resti nelle tombe, testimonianze iconografiche, testi scritti, che vengono incrociati tra di loro, fino a disegnare il vestiario che va dalla seconda metà del VI secolo, con la comparsa dei primi corredi funerari longobardi in Italia, fino alla fine del regno, definitivamente conquistato da Carlo Magno nel 774.
Il saggio acquisisce innanzitutto i risultati delle analisi al microscopio sui reperti di diverse necropoli, tra le quali, quelle di Collegno (Torino), Trezzo d’Adda (Milano) e Cividale del Friuli (Udine). Se ne ricavano informazioni sulla natura delle fibre, ma anche sulla torsione del filo, che rivelano — a dispetto dell’idea di rozzezza spesso associata ai «barbari» — una tecnica sofisticata. Esistono trame a spina di pesce e a losanga, fino a un pregiato intreccio che ricorda l’attuale pied de poule. Numerose inoltre le attestazioni di broccato, di cui si parla, tra l’altro, nei testi dell’epoca sulla tessitura. Nel corredo funerario, ma solo delle classi elevate, anche la seta, importata da Bisanzio o dal Vicino Oriente.
A «decorazioni intessute di vari colori» fa riferimento inoltre l’Historia Langobar-
dorum del monaco Paolo Diacono, la principale fonte, in generale, per conoscere la popolazione che arrivò a dominare gran parte dell’Italia centro-settentrionale, spingendosi fino a Spoleto e Benevento. Godino passa l’opera al setaccio. Quando si parla, ad esempio, dell’usanza germanica di «coprire con piccole fasce la parte bassa delle gambe» o delle «calzature semiaperte fino all’estremità dell’alluce e strette da lacci di cuoio incrociati». Abitudini e costumi che trovano conferma non solo nei materiali delle sepolture ma anche nelle iconografie come quelle dell’altare di Ratchis a Cividale. E che vennero a loro volta influenzati dal contatto con i romani, tanto che lo stesso Diacono registra l’introduzione di calze di lino o lana fino al ginocchio, mutuate dagli usi dei conquistati.
«Il libro sui longobardi fa parte di una collana chiamata anch’essa Living history — spiega l’editore Marco Sassi —. C’era un vuoto nella letteratura attorno al vivace mondo delle ricostruzioni: proviamo a riempirlo con una serie che fornisca strumenti filologici a chi le pratica e, al contempo, possa piacere ai semplici appassionati di storia». Anche se, certamente, l’accurata documentazione del testo di Godino — un merito — non lo rende una lettura semplice per i non specialistici. Un rischio che però si vuole correre. «In Italia — aggiunge Andrea Carloni, direttore della collana — la living history si è diffusa dalla metà degli anni Novanta, è cresciuta con internet e poi con i social network. Se da un lato questo sviluppo è utile per lo scambio di informazioni, ha però come rovescio della medaglia una minore adesione alle fonti. Noi vogliamo ridare qualità al dato storico, proponendoci anche come anello di congiunzione tra il mondo delle ricostruzioni e quello accademico».
Favorevole Elisa Tosi Brandi, storica del costume e della moda all’Università di Bologna, che collabora con alcuni gruppi impegnati nella living history: «Se basata su studi validi, consente di testare gli oggetti a livello pratico, con un approccio complementare a quello degli atenei». Nel libro di Godino, ad esempio, nel terzo e ultimo capitolo (il primo è dedicato ai materiali, il secondo alla descrizione dei diversi capi) viene proposta la ricostruzione di una cintura di una tomba di Collegno, verificando se e come avrebbe potuto sorreggere la spada. Questa utilità pratica convince anche Luigi Provero, professore di Storia medievale all’Università di Torino. «Lo stesso libro di Godino, dal suo particolare punto di vista sul vestiario, contribuisce a cogliere la creatività e la ricettività dei longobardi. Se la loro migrazione fu indubbiamente violenta — chiarisce —, seppero però poi adottare un corpus di leggi in latino, l’Editto di Rotari, o assimilare l’organizzazione della città, fissando la capitale a Pavia».
Allo stesso modo in cui, nelle decorazioni, ai serpenti e ai disegni zoomorfi della tradizione germanica, furono pronti ad affiancare i tralci di vite e i motivi vegetali di origine mediterranea.