Corriere della Sera - La Lettura
Un po’ meno un po’ più una dimensione sociale e socievole
Urbs civitas:
Mi spiace deludere i fan di film come Metropolis o Blade Runner. Tuttavia temo proprio che la verità sia questa: le città del futuro non saranno poi troppo diverse da quelle di oggi. Non nell’aspetto fisico, perlomeno. In fin dei conti, le metropoli del 2016 non differiscono così tanto dalle città d’epoca romana o medievale (ne è una riprova il fatto che i centri storici nei quali ancora abitiamo, a Roma come a Spalato, spesso risalgono proprio a quei tempi). Possiamo sognare i più arditi prodigi tecnologici o architettonici, ma nelle nostre case avremo sempre bisogno di piani orizzontali , di facciate per proteggerci dagli elementi, di finestre come interfacce verso il mondo esterno, o di muri verticali per separare gli spazi interni (scusatemi, amici decostruttivisti e seguaci di Frank O. Gehry).
Potremo fare uso di nuovi materiali o di pareti interattive, ma in ultima analisi i componenti essenziali di una casa — quelli celebrati da Rem Koolhaas come i Fundamentals alla Biennale del 2014 — non dovrebbero mutare in maniera significativa. Quello che invece cambierà saranno i nostri modi di fare esperienza della città. Spostarsi, gestire le risorse energetiche, incontrarsi, fare acquisti, lavorare, comunicare: tutte queste attività quotidiane potrebbero essere molto diverse da come sono oggi. Pensiamo a una giornata tipo degli anni Novanta, senza telefoni cellulari e con internet a singhiozzo: che differenza rispetto al presente! Nel futuro prossimo andremo incontro a molti altri sviluppi di questa portata. Quel che sta accadendo è che la rete si sta ampliando oltre l’ambito del digitale per entrare prepotentemente nel mondo fisico: internet sta diventando ormai da tempo internet of things, l’«internet delle cose», portando con sé nuovi modi in cui interpretare, progettare e abitare l’ambiente urbano.
Alcuni definiscono questo processo con il nome smart city, la città intelligente. Ma si tratta di mutazioni più profonde, quasi l’inizio di una nuova era umana e urbana: quell’era «della tecnologia calma» descritta dal grande informatico americano Mark Weiser.
Tra i tanti esempi di questa trasformazione possiamo citare la mobilità. Le automobili stanno diventando «computer su ruote», e stanno imparando a muoversi senza guidatore. Il loro uso cambierà il nostro modo di spostarci: una macchina che si guida da sola potrà darci un passaggio al mattino quando andiamo al lavoro e poi, invece di restare ferma in un parcheggio, portare a scuola i nostri figli o quelli del vicino o chiunque altro cittadino. Certo la tecnologia dovrà essere migliorata, come ci ricorda la recente notizia della prima morte in un incidente automobilistico del passeggero di una macchina a guida parzialmente autonoma.
Alcune nostre ricerche presso il Mit dimostrano che, almeno in linea teorica, sarebbe possibile soddisfare la domanda di mobilità di metropoli come Milano, Torino, New York o Singapore soltanto con una frazione delle auto in uso oggi: circa il 20%. Immaginiamo la differenza: grazie a sistemi più efficienti di condivisione delle risorse, molti spazi attualmente occupati da parcheggi potrebbero essere rifunzionalizzati (riadattati, ad esempio, come aree pubbliche o giardini). Ma internet delle cose tocca anche molti altri aspetti. Pensiamo ad Airbnb, il sistema di condivisione degli appartamenti online. In pochi anni ha permesso a una piccola start-up californiana di creare una delle più grandi catene alberghiere del mondo, quasi a costo zero, semplicemente mettendo in rete degli spazi altrimenti inutilizzati. Se la stessa capacità ricettiva avesse dovuto essere creata dal nulla, sarebbero stati necessari investimenti giganteschi — non soltanto in termini di capitali ma anche di materie prime e risorse energetiche.
Troviamo di nuovo due componenti fondamentali della smart city: la capacità di ridurre il consumo di risorse e di incentivare la condivisione, creando una dimensione urbana sostenibile e sociale (o socievole). Insomma, nella sua forma fisica la metropoli di domani forse non sarà troppo diversa da quella di oggi. Ma diventerà sempre di più uno straordinario teatro nel quale sperimentare nuove dinamiche relazionali. Non vivremo l’ambiente del futuro tanto come nuova urbs (lo spazio fisico della città) ma anche e soprattutto come civitas, una comunità solidale e partecipe di un futuro comune. Una comunità che, anche grazie alle reti e alle sue interconnessioni, speriamo si riveli sempre più aperta e inclusiva, forse unico antidoto alle cupe Brexit di oggi e di domani.