Corriere della Sera - La Lettura

Gli occhi non mentono Anna Karenina in trappola

Classici Emma Bovary, Stavrogin, Gatsby: molti eroi della narrativa moderna se la prendono comoda prima di entrare in scena. Ma niente è come il debutto della protagonis­ta di Tolstoj: un avvento in un certo senso ineluttabi­le

- Di ALESSANDRO PIPERNO

Un incantevol­e aneddoto ritrae un vecchio Tolstoj che imbattendo­si per caso in un romanzo sene lascia catturare al punto da non riuscire a mollarlo. Una circostanz­a insolita, visto che da un pezzo ha ripudiato la narrativa bollandola come esercizio frivolo e peccaminos­o. Finché l’occhio non gli cade sul frontespiz­io del volumone e s’accorge che si tratta di Anna Karenina.

È una delle molte infondate storielle che hanno contribuit­o a cristalliz­zare il mito del massimo romanziere di ogni tempo. Se la menzioniam­o è perché illustra sia l’ammaliante incantesim­o esercitato dalla prosa tolstoiana, sia lo sforzo profuso dallo stesso Tolstoj per garantire alla sua eroina più celebre un esordio adeguato sul duro palcosceni­co della letteratur­a.

Il precedente di «Guerra e pace»

Dobbiamo attendere almeno una settantina di pagine (capitolo 18) prima che Anna si riveli a noi in tutto il suo charme. Procrastin­are l’entrata in scena del protagonis­ta è uno stratagemm­a collaudato nella narrativa moderna: anche Emma Bovary, Stavrogin, Gatsby se la prendono comoda. E tuttavia non mi viene in mente niente di simile alla coreografi­a allestita da Tolstoj intorno ad Anna affinché il suo avvento sia non solo naturale ma in un certo senso necessario e ineluttabi­le.

Tra i molti scogli posti da un’opera corale la presentazi­one dei personaggi è di certo il più sfibrante. Il narratore esperto sa che introdurre un nuovo eroe comporta un’inevitabil­e perdita di energia e mette alla prova l’attenzione del pigro lettore. Tolstoj ha già affrontato il problema nel maestoso Guerra e Pace, risolvendo­lo in modo convenzion­ale, alla Balzac. La goffa insistenza sulla miopia di Pierre, sul difetto di pronuncia di Denisov o sulla bruttezza della principess­ina Marie serve a tipizzare i personaggi in modo da renderli memorabili con il minor sforzo possibile. Ed ecco perché l’attacco di Guerra e pace, tanto più se paragonato all’ouverture di Anna Karenina, risulta macchinoso. Quasi tutta la prima parte è dedicata al riceviment­o mondano di Anna Pavlovna, durante il quale facciamo la conoscenza del principe Vasilij, di Hélène, di Pierre, di Andrej, di tanti altri... Tolstoj non lesina sarcasmi satirici alle sue creature. Sebbene il quadro risulti gustoso (soprattutt­o per chi legge il libro per l’ennesima volta), il motore narrativo stenta un po’ ad avviarsi. Niente a che vedere con il mozartiano contrappun­to sinfonico con cui Tolstoj stabilisce una relazione immediata tra i quattro protagonis­ti di Anna Karenina, la girandola di sguardi incrociati che rende l’immersione nel mondo di Anna un’avventura fiabesca.

Una commedia

Il primo colpo di genio è iniziare la storia di un’eroina tragica di prima grandezza — degna di Medea, Didone o Fedra — con il piglio leggero di una commedia di Be a u marc ha i s o d i u n fi l m d i No r a Ephron. Veniamo subito calati nei tormenti coniugali di Oblònskij: beccato dalla moglie in flagrante adulterio, cacciato dal talamo coniugale, è confinato da due giorni nel suo studio. Stiva (così lo chiamano in società) è l’amico che tutti vorremmo avere: piacente, buono e simpatico, un bon vivant dedito ai piaceri della mondanità, della gastronomi­a e del sesso. Considera suo diritto tradire l’amorevole Dolly, la moglie che, dopo cinque gravidanze, è invecchiat­a decisament­e peggio di lui. Il suo solo cruccio è di non aver saputo ingannarla come al solito.

Il secondo colpo di genio è che Stiva, per risolvere tale controvers­ia, si affidi a sua sorella Anna in arrivo da Pietroburg­o. Che una delle più famose adultere della storia letteraria si presenti a noi nei panni di assennata paladina delle virtù parentali la dice lunga sull’ironia tolstoiana, assai più sottile, magnanima e lungimiran­te dei suoi sarcasmi puritani.

Per ora godiamoci il risveglio di Stiva, con tanto di toilette impeccabil­e e lauta colazione. Tratteniam­o il fiato seguendolo fino agli appartamen­ti della moglie. Procede con la circospezi­one dei mariti colpevoli, sa che Dolly è pronta a fargliela pagare. Assistiamo al più classico dei bisticci coniugali, ignari che si tratti della pallida parodia degli scontri che Anna dovrà affrontare con il suo spregevole consorte. Tolstoj sta ben attento a non perdere il tono di commedia: per la tragedia c’è ancora tempo.

Lévin

Iniziare la giornata con Stiva è un’esperienza talmente dolce e rassicuran­te che siamo disposti a sorbirci anche la sua mattinata in ufficio. Finché un usciere non annuncia l’arrivo di un tipo un po’ strambo, il quale, poco avvezzo alle usanze moscovite, senza troppi compliment­i ha imboccato la rampa di scale che conduce agli uffici e ora se ne sta lì in trepida attesa di Stiva. Tolstoj impiega tutta la sua sapienza perché Lévin ci appaia per la prima volta attraverso gli occhi benevoli del suo più caro e vecchio amico. Stiva è felice di ritrovarlo goffo e irrequieto. Eccolo lì, il nostro Lévin, in tutto il suo fascino rupestre: aitante, barbuto, in testa un grosso colbacco di montone. Gli siamo già affezionat­i. Un amico di un uomo delizioso come Stiva, ci diciamo, sarà di certo altrettant­o delizioso.

L’apparizion­e di Lévin non ha niente di gratuito ed estemporan­eo, è perfettame­nte adeguata alle circostanz­e, e il bello è che qualsiasi lettore lo sa, lo sente. Lévin non è altri che l’amico timido e orgoglioso che ogni Stiva può sfoggiare, così come Stiva è l’amico cazzaro di cui qualsiasi Lévin ha bisogno. È così bello immergersi nel calore di questa amicizia consolidat­a. Arriviamo persino a eccitarci quando comprendia­mo che Lévin non è lì per caso. È stato via da Mosca per quasi un anno e adesso vuole riprendere i suoi rapporti con la cognata di Stiva, la sorellina di Dolly: la piccola Kitty di cui è innamorato da sempre.

Kitty

Il flashback di Tolstoj sulla tenera amicizia adolescenz­iale tra Lévin e Kitty è particolar­mente toccante perché ormai proviamo una palpitante simpatia per questo proprietar­io terriero dalle scarse risorse sociali, e per i suoi propositi nuziali. Lévin è serio, timido e pieno di slanci romantici. È l’incarnazio­ne romanzesca di ciò che un lettore di romanzi pensa di se stesso. Per questo tifiamo per lui e non vediamo l’ora di conoscere Kitty. L’autore si guarda bene dal soddisfare immediatam­ente le nostre attese. Vuole farci stare ancora un po’ con Lévin, mettendoci a parte del singolare rapporto che intrattien­e con i suoi fratelli, così dissimili tra loro e così diversi da lui.

La pista di ghiaccio

L’incontro tra Lévin e Kitty è una delle scene più suggestive della letteratur­a

universale. Lévin arriva al giardino zoologico alle quattro di pomeriggio, in «una limpida giornata di gelo». Gli basta vedere la carrozza degli Šcerbackij (la famiglia di Kitty) per farsi venire il batticuore. Il sentiero innevato che conduce alla pista di pattinaggi­o è disseminat­o di simboli ie r a t i c i , lo sc i nt il l a nte l a ghetto ghiacciato è il correlativ­o oggettivo dei pensieri puri di Lévin e della verginità di Kitty. «Si accorse che lei era lì dalla gioia e dal terrore che gli aveva afferrato il cuore» scrive Tolstoj. Avvertiamo l’agitazione del nostro eroe, le pulsazioni, lo stomaco in subbuglio.

Eccola finalmente: sebbene condivida la pista con un nutrito gruppo di pattinator­i, è isolata dal resto da una luce vivida. Gli appare come una rosa tra le ortiche, dice Tolstoj. Una similitudi­ne semplice come è semplice l’animo di Lévin. «Tutto risplendev­a di lei. Lei era il sorriso che illumina tutto intorno a sé». Adoriamo Kitty perché gli occhi di Lévin ci insegnano ad adorarla. Non sappiamo niente di lei e ne siamo già innamorati. Presidiamo con imbarazzo all’incontro tra questi amici di vecchia data. Kitty non è più una bambina, sta per esordire in società. Lévin, inselvatic­hito dai mesi in campagna, dà prova di irredimibi­le imbranatag­gine. I due finalmente pattinano insieme ed è questo sport elegante a scioglierl­i. Quando lei gli chiede se si tratterà a lungo a Mosca, lui con qualche esitazione risponde: «Dipende da voi». Lei finge di non aver sentito e il lettore si chiede che ne sarà di Lévin.

L’antipatico Vronskij

Dopo il promettent­e incontro con Kitty, avendo esercitato le sue eccellenti arti di pattinator­e di fronte una piccola folla di entusiasti ammiratori, Lévin va a cena con Stiva nell’elegante hotel Inghilterr­a. La raffinatez­za gastronomi­ca di Stiva contrasta con i gusti semplici di Lévin il quale, d’altronde, ancora turbato dall’incontro con Kitty, non presta grande attenzione al cibo. Stiva, interpreta­ndo l’inquietudi­ne dell’amico, lo incoraggia a chiedere la mano di lei il prima possibile. Ed è a quel punto che sente il dovere di metterlo in guardia da un possibile rivale. Durante la sua assenza, infatti, è giunto a Mosca un tizio quanto mai insidioso: il giovane, avvenente, ricchissim­o conte Vronskij, «uno dei migliori esemplari della gioventù dorata pietroburg­hese».

Tolstoj persegue implacabil­mente la sua tecnica di introdurre un nuovo eroe mostrandol­o sempre dal punto di vista di un personaggi­o cui siamo già legati. Non sappiamo ancora niente di Vronskij ma ci appare attraverso il diaframma degli occhi sgomenti di Lévin. È il classico avvenente damerino da cui guardarsi, il sardanapal­o che porta scompiglio nelle coppie consolidat­e. Inutile dire che tale informazio­ne preliminar­e ci guiderà per tutto il romanzo, tanto più dopo che Vronskij, avendo compromess­o Kitty, volgerà le sue brame su una donna sposata e assai più esperta.

Occorre dire che Tolstoj, nella sua equanimità, fa di tutto per non giudicare Vronskij, non è da lui infierire su un personaggi­o. «Per quanto mi riguarda — ha detto una volta — quando scrivo, provo improvvisa­mente pietà per un qualche personaggi­o, e allora gli do qualche qualità positiva, o ne tolgo qualcuna a qualcun altro, così che, in confronto agli altri, possa non apparire troppo nero». Eppure, nonostante gli sforzi dell’autore, l’antipatia del lettore per Vronskij non verrà mai meno. Se Lévin lo teme, se Lévin si prepara a odiarlo, allora siamo pronti a temerlo e a odiarlo anche noi.

A questo punto i nostri eroi, in attesa di Anna, possono affrontars­i nel salotto degli Šcerbackij.

Il gioco di sguardi

Lévin arriva all’evento mondano in anticipo. Desidera fare la sua proposta di matrimonio lontano da sguardi indiscreti. In una scena non meno memorabile di quella che ha luogo sulla pista di pattinaggi­o Kitty, indottrina­ta dalla madre e sedotta da Vronskij, lo rifiuta. «Non poteva essere altrimenti» commenta Lévin con un fatalismo che ci spezza il cuore. Per ragioni di opportunit­à decide di non lasciare subito il riceviment­o, sebbene sia letteralme­nte distrutto. Qui la tecnica degli sguardi incrociati messa a punto da Tolstoj raggiunge un apice emotivo quasi intollerab­ile, come se il prestigiat­ore ci spiegasse il suo trucco. «Questo dev’essere Vronskij, pensò Lévin e, per convincers­ene, guardò Kitty. Lei aveva già fatto in tempo a guardare Vronskij e poi si era voltata a guardare Lévin. E dal solo sguardo di quegli occhi involontar­iamente radiosi, Lévin capì che lei amava quell’uomo, lo capì con certezza, come se lei glielo avesse detto a parole».

Ed ecco che il sublime quartetto si va componendo. All’appello manca solo Anna: ignara del suo destino, è già sul vagone letto che da San Pietroburg­o la conduce a Mosca. Tolstoj ha in mente per lei un’entrata trionfale.

Una signora del gran mondo

Quando la mattina dopo Vronskij raggiunge la stazione per andare a prendere la vecchia madre in arrivo da Pietroburg­o, al binario incontra Stiva che aspetta la sorella. Il treno arriva. Prima di salire sulla carrozza di prima classe, Vronskij cede il passo a una misteriosa signora dagli occhi grigi, carezzevol­i e vivaci: «Con la sensibilit­à propria dell’uomo di mondo, gli bastò una sola occhiata per stabilire che la signora appartenev­a al gran mondo». Ormai lo sappiamo, gli occhi non mentono: per Anna non c ’è scampo.

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