Corriere della Sera - La Lettura

La violenza del gruppo: sì, sono stato cattivo

Erano i primi mesi del 1976: indossavo il grembiule della scuola, il cappotto sopra il grembiule, la cartella sopra il cappotto. Tutte le mattine facevo la stessa strada con Umberto, ero gentile con lui. Poi, in classe, tutto cambiava. Umberto era lo zimb

- Di MAURO COVACICH

Una mattina, correndo sulla pista ciclabile che segue verso nord l’argine del Tevere in uno scenario agreste in tutto simile al vecchio intervallo delle trasmissio­ni Rai, mi sono imbattuto in un grosso cane solitario. Come ho imparato nel corso di un’esperienza ventennale di incontri indesidera­ti in aperta campagna, ho proseguito alla stessa velocità, badando bene a non incrociare il suo sguardo. Di solito sono cani da guardia che si allontanan­o dalle proprietà — qui a Roma, campi di calcetto, rimesse, sfasciacar­rozze — diventando meno aggressivi via via che aumenta la distanza dal loro territorio, il perimetro recintato da cui sono usciti in ricognizio­ne. Evitare il contatto visivo spesso funziona, così infatti è stato quel giorno.

La volta dopo però, lo stesso bestione si è fatto trovare in compagnia di due sodali, un maremmano nero (se esiste) e un meticcio tozzo con la testa quadrata e gli occhi distanti. Ho capito subito che tirava un’altra aria. Mi hanno sbarrato la strada abbaiando e latrando, poi, dopo avermi accerchiat­o, si sono messi a ringhiare a due centimetri dalle mie dita, gettandomi nello stesso stato d’animo dell’esordio dantesco (la lonza eccetera), senza che apparisse all’orizzonte, non dico un Virgilio, ma nemmeno un comune mortale munito di bastone o spray urticante. La cronaca dà conto di molte persone finite in modo simile: sbranate per puro passatempo, diciamo nel raptus gioioso di un’azione co- rale. Stando fermo immobile in mezzo a quei tre cani, ricordo di aver cercato lo sguardo del primo, sperando assurdamen­te in un minimo di complicità. Perché l’altra volta mi hai lasciato andare e oggi vuoi uccidermi? Ma alla fine nessuno mi ha ucciso. Dopo un tempo che, ora, a mente fredda, stimerei di un paio di minuti scarsi, i tre hanno ripreso la loro ronda, accontenta­ndosi di avermi umiliato.

Nessuno mi ha ucciso neanche quando ho rischiato l’accoltella­mento in una colluttazi­one per difendere la mia ragazza, dopo che era stata quasi investita nei pressi dello stadio olimpico, a due passi da dove abitiamo. All’inizio il ragazzo che aveva provocato l’incidente si stava quasi scusando, ma poi le urla e la concitazio­ne (e il mio accento) hanno richiamato altri tifosi suoi compari che mi hanno accerchiat­o proprio come i cani quella mattina. Essendo sulla strada di casa, ci capita spesso di passare davanti al bar dov’è avvenuto il fatto. Se siamo insieme in motorino, lei si stringe a me e urla Me te magno er core!, che è la frase con cui è proseguito lo scambio di opinioni prima di venire alle mani — ma i coltelli sono rimasti in tasca — solo qualche spintone, già minato in partenza da una certa svogliatez­za per la disparità delle forze in campo, stesso identico comportame­nto della ronda canina sulla pista ciclabile.

I cattivi e il branco, dunque.

In questi campionati europei abbiamo avuto parecchie occasioni di osservare i cattivi all’opera. La soggettiva dell’hooligan russo che ha filmato i suoi pestaggi in giro per Marsiglia, montando poi il tutto con una musichetta allegra, credo resterà una pietra miliare del genere gonzo, violenza pura a beneficio del navigatore onanista, qualcosa di molto simile all’intuizione profetica di Kathryn Bigelow in Strange

days (1995). Ma la Rete è piena di video girati da gruppi di uomini — di solito ultras e/o neonazisti — intenti a massacrare a calci e pugni un corpo disteso a terra, ormai quasi inerte, privo anche solo della forza di proteggers­i il volto. Un esemplare della nostra specie, un tempo persona, ora ridotto alla condizione di entità biologica, ciò che Giorgio Agamben chiama «nuda vita».

Esistono i cattivi? Oh sì, certo che esistono, sono tipi umani — tocca dirlo, nel novantanov­e per cento maschi — mai emancipati­si dalla loro coralità lupesca, esseri che amano fondersi nella potenza di un istinto comune, qualcosa che li tiene al sicuro da ciò che temono di più al mondo: il principio d’individuaz­ione. Per molti è rassicuran­te appartener­e a un gruppo ristretto e organizzat­o in cui non viene richiesto alcun esercizio critico, vivere nascosti in quel genere di mute che Elias Canetti chiama «cristalli di massa». La ragione è semplice: diventare individui (e poi persone) richiede uno sforzo spesso insostenib­ile, significa rispondere all’appello dell’Altro. Non a caso veniamo al mondo con un nome. Il nome è già lì ad aspettarci, nel sistema delle relazioni sociali che ci precede, le istituzion­i della comunità di cui diventerem­o cittadini, ma assumerlo è tutt’altro che automatico comportand­o piuttosto un processo di trasformaz­ione che definirei da cucciolo a bambino. Anche un cucciolo può rispondere al proprio nome, ma solo un bambino potrà rispondern­e, ovvero portarne la responsabi­lità come soggetto libero in mezzo ad altri soggetti liberi che come lui conoscono la Legge e la parola.

Il cattivo è captivus, prigionier­o del proprio guscio pulsionale. In fondo, anche aderire all’Isis è un modo per restare in quel guscio, ritrovare la compattezz­a indistinta di una massa che proprio attraverso la sottomissi­one acritica ha accesso a una presunta verità del Reale. La verità che sta sotto. Così per Slavoj Zizek, il volto coperto — non solo dei terroristi, ma delle donne costrette al burqa o agli altri costumi restrittiv­i della Sharia — lungi dall’essere un volto nascosto da un velo, sarebbe il risultato inguardabi­le di una cancellazi­one dei lineamenti, lo strato di tessuti sanguinole­nti rivelato a scorticame­nto avvenuto, non una faccia mascherata, bensì la vita sottopelle, la carne, la cosa in sé. Per questo ci disturba così tanto: perché è ciò che sta sotto, non sopra l’identità (di cui la feritoia degli occhi costituisc­e il residuo, lo sguardo individuan­te, di fatto il nostro nome e cognome).

Certo, per sapere queste cose aiuta leggere qualche libro, ma non basta. Per sa-

perle bene, occorre essere stati cattivi. E io sono stato cattivo. Mi piaceva nasconderm­i nel branco, infierire sulla vittima insieme agli altri, sentirmi parte di un organismo più grande, nel quale non dovevo pensare ma solo ripetere le azioni dei più temerari, dei più spudorati. La crudeltà è un aspetto che si coglie solo con uno sguardo esterno, e finché qualcuno non ti trascina fuori dalla mischia, si tratta di uno sguardo impossibil­e da acquisire. Io ho avuto fortuna.

Tutte le mattine facevo la strada per andare a scuola insieme a Umberto. Il grembiule sotto il cappotto, la cartella sulle spalle, percorreva­mo quei cinque-seicento metri, tutti sullo stesso marciapied­e, scambiando­ci le figurine doppie dell’album sull’Olimpiade di Montreal. Erano i primi mesi del 1976. Umberto era lo zimbello della classe. Ora mi è difficile capire per quale misterioso colpo della sorte fosse capitato a lui, lo ricordo un po’ grassoccio, forse troppo spesso rosso e sudato in faccia, e un po’ goffo nell’ora di ginnastica (all’epoca ancora a corpo libero), ma privo di difetti abnormi che potessero spiegare l’accaniment­o dei prepotenti a farne l’unico bersaglio delle loro vessazioni.

Chi lo sa come è iniziato il supplizio, forse è toccato sempliceme­nte a lui. Quello che so per certo è che io lo torturavo insieme ai miei compagni. Dal primo minuto in cui entravo in classe mi univo agli altri, sghignazza­vo a ogni sopruso — le cartucce della stilografi­ca tagliate, la merenda inzuppata nel cesso —, mi buttavo felice nella mischia di corpi che lo schiacciav­ano a terra in un rito collettivo di sopraffazi­one ripetuto a ogni ricreazion­e, non appena la maestra usciva a fumare. Mi piaceva proprio partecipar­e a quelle vigliaccat­e, essere un tutt’uno con i più forti che lo mettevano giù, tra i banchi, perché anche noi, i meno arditi, provassimo l’ebbrezza di vincere la sua resistenza montandogl­i addosso con tutto il nostro peso, fino a farlo piangere.

Ecco, mi dava fastidio che piangesse. Il pianto turba anche i bambini più stronzi, ma soprattutt­o rovinava la festa, sembrava l’ultimo tentativo di ribellione. Quanto saremmo stati meglio invece, noi, l’intera classe, se si fosse rassegnato alla sua condizione di capro. Non mi sfiorava l’idea che fosse ingiusto punirlo. Se i capi l’avessero ucciso, è probabile che avrei contribuit­o. Una massa che spacca il cranio a un individuo. La curiosità in fondo è sempre la stessa, come con i giocattoli: d’accordo, funzionano, però cosa c’è lì dentro a farli funzionare? Guardare dentro, guardare sotto. La cosa in sé. Ma io cos’avevo dentro, chi ero in quella massa? Ero lo stesso bambino premiato dalla scuola per il suo progetto di parco nazionale? Lo stesso attivista del Wwf che si commuoveva per le disavventu­re di Buck nel Richiamo della fo

resta ? Sembrerebb­e di sì. Ero perfettame­nte doppio, pensavo fosse possibile alleggerir­si del fardello della propria identità, del proprio nome, tornare un cane tra i cani, e poi, al suono dell’ultimo campanello, uscire di nuovo dal branco e fare bene i compiti, con le cornicette e tutto. Uno squadrista esemplare, ma ancora nessuno me l’aveva detto.

Un giorno però, tornando a casa, mentre gli sorreggevo di buon grado la cartella affinché potesse togliersi il cappotto (sì, sudava), Umberto mi ha chiesto: perché quando siamo soli sei sempre così gentile con me?

Ovviamente sono rimasto senza parole. Quindi dovevo rispondere di quello che facevo? Non potevo nasconderm­i nella muta? Non ero semplice materia umana? Ero un bambino gentile o quello che lo maltrattav­a in classe? Dovevo davvero assumermi la responsabi­lità di una simile contraddiz­ione? Di colpo mi sono visto dall’esterno. Ero un individuo, avevo un volto, un nome, dovevo rispondern­e. La lezione più importante l’ho ricevuta da un compagno di nove anni. Più di Dante, Canetti, Bigelow, Agamben, Zizek e London messi insieme. Non so che fine abbia fatto Umberto, so solo che non tutti i cattivi hanno avuto la fortuna di incontrarn­e uno sulla loro strada.

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