Corriere della Sera - La Lettura
Arte, narrativa, teatro: l’autobiografia dell’Africa
Un gruppo di artisti dal Sud del mondo (molto glamour e tuttavia ancora poco numeroso) da qualche tempo si fa notare nelle mostre in Occidente. Saranno tanto più originali se riusciranno ad affrancarsi dal virus della globalizzazione stilistica e restare
Ese i nuovi Kiefer, Koons e Hirst venissero dall’Angola, dal Sudan o dalla Tanzania? All’alba del nuovo secolo, da più parti si è avvertito che nel mondo dell’arte contemporanea stava accadendo qualcosa di inatteso, il cui significato potrebbe essere colto riprendendo alcuni versi di Kavafis: «Che aspettiamo, raccolti nella piazza?/ Oggi arrivano i barbari. (…)/ Perché d’un tratto tutto questo smarrimento / ansioso? (…)/ S’è fatta notte, e i barbari non sono più venuti (…)/ E adesso, senza barbari, cosa sarà di noi?».
Come suggerisce questa poesia, agli inizi del XXI secolo la cultura stanca dei vincitori di un tempo aspetta come una liberazione l’avvento — pericoloso e insieme decisivo — dei «barbari»: ovvero, di coloro che avrebbero potuto contribuire al risveglio di una società artistica segnata da mancanza di dialogo.
Nel corso del Novecento, il concetto di avanguardia era apparso come una prerogativa dell’Occidente. Al principio del nuovo millennio, la nostra «supremazia» entra in crisi. Per reagire a una certa stanchezza che pervade l’artworld, si compie un netto cambio di rotta. Ci si pone in ascolto di idee e di modalità linguistiche che giungono dall’esterno: da territori altri. In primo luogo, dall’Africa. «Si può dire — come ha ricordato Renato Barilli — che sia scesa su tutti i cultori dell’arte una specie di Pentecoste espansa, che li ha autorizzati a uscir fuori dai rigidi sentieri dell’ortodossia occidentale».
Mescolando motivazioni diverse — una sorta di cattiva coscienza, una buona dose di esotismo, una furba attitudine all’accoglienza, una vocazione (ancora) egemonica — il sistema dell’arte si fa sedurre dal mito dell’altrove. Musei, gallerie, fiere e importanti rassegne decidono di aprire i loro spazi alle opere dei «buoni selvaggi». I quali, lungi dall’essere ingenui, inaspettatamente appaiono aggiornati sugli esiti più avanzati dello sperimentalismo postmoderno; e in sintonia con le nostre più audaci istanze espressive. Quei «selvaggi» chiedono finalmente cittadinanza presso le nostre istituzioni e i nostri circuiti mercantili, autentici empori del potere culturale e finanziario.
Strani giochi del destino. Nella nostra epoca — in maniera amplificata — si ripete quel che era avvenuto nella stagione delle avanguardie, quando i protagonisti di movimenti come il cubismo, l’espressionismo e il dadaismo, pur se con accenti differenti, erano stati ammaliati e orientati dalla scoperta dei feticci modellati da anonimi scultori negri: con potente slancio fantastico, pittori come Picasso e Matisse si erano appropriati di quei «testi figurativi» alieni e mi- steriosi, con l’intento di rafforzare la centralità del canone visivo occidentale. Oggi, invece, le opere che giungono dall’«altro mondo» sono realizzate da artisti dotati di una notevole consapevolezza autoriale, portatori di ragioni estetiche (in parte) diverse, interpreti di scenari (ancora in parte) alternativi, eppure in perfetta consonanza con il gusto del mainstream.
Esemplare il fenomeno dell’arte africana, la cui consacrazione risale al 2002, quando il critico nigeriano (newyorkese d’adozione) Okwui Enwezor — poi curatore della Biennale di Venezia del 2015 — invita a Documenta X alcune tra le voci più originali del «continente nero». Da allora abbiamo assistito all’affermarsi di una vera moda. Diffusa, ma piuttosto controversa. Che nasconde non poche contraddizioni. In tanti — direttori di musei, critici, galleristi — sovente hanno celebrato l’invasione dell’Europa e degli Stati Uniti da parte di artisti provenienti dall’universo subsahariano. Alcuni dati, però, sembrano indicarci altro. Come è emerso da una recente ricerca pubblicata sul numero 30 di «Artribune Magazine», nella quale sono state prese in considerazione le tre maggiori rassegne tenutesi negli ultimi dieci anni: la Documenta di Kassel, Manifesta e la Biennale di Venezia. L’aspetto più sorprendente di questa ricognizione: le 12 manifestazioni esaminate complessivamente hanno registrato 1.381 presenze, di cui solo 79 africane (il 5,7%).
Nonostante questi numeri minimi, l’Africa riesce a esprimere tra le presenze più interessanti del panorama del nostro tempo: non solo Dumas, Kentridge e Abdessemed, ma anche El Anatsui, Mosquito, Shonibare, Dago e tanti altri. Pur se eterogenee, queste (e altre) personalità sembrano condividere alcune strategie. Innanzitutto, un problematico confronto con le tradizioni autoctone. Inoltre, il ricorrere a un artificio come quello del bricolage, cui sono dedicate illuminanti pagine in Il pensiero selvaggio. Il bricoleur, scriveva Lévi-Strauss in quel libro, «deve rivol- gersi verso un insieme di materiali, farne e rifarne l’inventario, e soprattutto, impegnare con esso una sorta di dialogo per inventariare tutte le risposte che l’insieme può offrire al problema che gli viene posto».
Un po’ come i loro antenati, gli artisti africani 2.0 agiscono da bricoleur, che tendono a muovere sempre da qualcosa di esistente: si affidano a ricognizioni filtrate in chiave lirica o ironica. Talvolta, riarticolano suggestioni tratte dalla storia più recente dei loro Paesi. Altre volte frugano in una vasta discarica di frammenti quotidiani o autobiografici, di cui si appropriano, per riconvertirli infine in episodi pittorici e scultorei. Oscillando tra espressionismo, realismo visionario, attenzione civile, ultra-pop, neo-tribalismo e abbandoni segnici, pervengono così a implicite forme di affabulazione. Costruzioni che, nel portarsi al di là di ogni concettualismo, non tradiscono mai una profonda tensione narrativa. Si tratta di proposte figurative in cui questi artisti non vogliono informare su contesti né su problematiche: mirano, invece, a farsi inquieti testimoni delle condizioni umane e sociali di un’Africa combattuta tra fascinazioni per i frutti della civilizzazione e ancestrali legami con mitologie e ritualità arcaiche.
Su queste basi si modulano esercizi ibridi, elaborati da artisti sorretti da una straordinaria disponibilità linguistica e tecnica, abili nel transitare attraverso pratiche non contigue (pittura, scultura, installazione, video), impegnati nell’assorbire momenti lontani all’interno di melting pot dissonanti, disinvolti nel compiere ininterrotti rimescolamenti tra tracce plurali, sapienti nel violare gerarchie consolidate: il colto e il popolare, il sofisticato e il massificato. Ma poco «africani».
È forse qui il paradosso dell’arte «nera» di oggi. Un paesaggio vivace e mobile, abitato da creatori che, però, solo in rari casi svelano senso dell’appartenenza a una determinata comunità e rispetto di una precisa identità culturale. Spesso, essi ci appaiono contagiati da quel virus della globalizzazione stilistica — indissolubile intreccio tra internazionalismo, colonialismo, modernizzazione e omologazione — cui davvero pochi artisti oramai riescono a sottrarsi. A ogni latitudine. A New York e a Parigi. A Pechino e a Lagos.
Dunque, i Kiefer, i Koons e gli Hirst del futuro arriveranno dall’Angola, dal Sudan o dalla Tanzania? Forse, per scoprirli occorrerà ricercarli non tra i «soliti noti», ma tra i tanti giovani artisti che lavorano in silenzio in qualche atelier del Cairo o di Johannesburg. E hanno il coraggio e l’orgoglio di «essere» fino in fondo africani.
Appartenenze Oscillano tra espressionismo, realismo visionario, attenzione civile, ultra-pop, neo-tribalismo. Con alcuni nomi ricorrenti, da Kentridge a Dumas