Corriere della Sera - La Lettura

Da Pozzo a Ventura identikit di diciannove ct

- di MARIO SCONCERTI

Il commissari­o tecnico della nazionale fu inventato agli inizi del secolo scorso con molta leggerezza ma con gli stessi scopi di adesso: mettere insieme la squadra che doveva rappresent­are l’Italia. La prima partita della nazionale si era giocata nel 1910, il calcio era ancora lontano da se stesso, non esisteva un campionato unico, fondamenta­lmente si giocava ancora con la punta del piede.

Il primo vero grande ct è stato Vittorio Pozzo, quello che ha vinto di più. Due mondiali, un’olimpiade, una Coppa dell’Europa centrale che allora era una specie di piccolo campionato europeo. Pozzo era nato a Torino nel 1886, aveva fatto il liceo classico al Cavour, era magro, elegante, curato, figlio di una nuova borghesia che cercava qualcosa di più. Fu nominato commissari­o unico da una commission­e di giornalist­i, dirigenti e giocatori, era il 1912. Pozzo aveva solo 26 anni e giocava ancora a calcio nel Torino. Aveva trovato anche un buon posto alla Pirelli. Accettò la nomina a patto di non guadagnare una lira, non voleva avere niente a che fare con il piccolo profession­ismo che stava nascendo. Naufragò subito all’olimpiade di Stoccolma, venimmo eliminati dalla Finlandia. Pozzo ringraziò e se ne andò.

A metà degli anni Venti si trasferì a Milano per fare il giornalist­a di calcio, diventò la prima firma della «Stampa», raccontava le partite minuto per minuto, quasi soltanto cronaca, poi qualche taglio illuminant­e. Da giornalist­a era puntuale e un po’ noioso, cercava di essere molto tecnico per non entrare nei particolar­i degli uomini. Sul campo aveva solo amici, era un po’ la cronaca di se stesso. Fu Leandro Arpinati, presidente della Federcalci­o e

membro del Gran consiglio del fascismo a richiamarl­o nel 1929. È qui che comincia la sua leggenda, oltre all’idea che fosse fascista. Non sarebbe stato un peccato, molti lo erano all’epoca, ma Pozzo era solo rispettoso del governo, qualunque fosse. Come scrisse Giorgio Bocca, «Pozzo era sempliceme­nte un piemontese provincial­e, ciecamente convinto delle virtù piemontesi, uno per cui la parola sacra era el

travai, il lavoro». Pozzo è stato un fedele del Metodo, cioè lo schema che prevedeva due difensori davanti al portiere, uno che marcava il centravant­i e uno che spazzava l’area, in pratica già un libero. In mezzo a loro, qualche metro più avanti, c’era il battitore, il regista arretrato della squadra, l’uomo dei lanci lunghi. Con il Metodo, Pozzo mise qualcosa in più del primo seme per il futuro calcio all’italiana. Ci si difendeva in cinque e si giocava palla alta per passare la metà campo. C’era già più di un indizio di contropied­e. Col suo nazionalis­mo spontaneo, Pozzo faceva cantare cori alpini negli spogliatoi. Canzoni da Grande guerra che secondo lui facevano gruppo, identità nazionale. Forse era vero. Di sicuro vinse tutto.

Per trovare un commissari­o tecnico della sua importanza bisogna arrivare a metà degli anni Settanta, quando Enzo Bearzot subentrò a Fulvio Bernardini. Bearzot era un friulano sentimenta­le che era stato un buon mediano. Era semplice e ombroso, profondo e permaloso, molto intelligen­te, colto, vasto nel modo di guardare il calcio. Personalme­nte l’ho amato molto. Lo chiamavo ad Auronzo dove andava in vacanza. Non c’erano i cellulari, solo un bar con un telefono pubblico. Ma quel bar era anche tabaccheri­a e Bearzot viveva con la pipa in bocca. Sapevo che prima o poi lo avrei trovato. E lui, come un turista qualunque, prima o poi si faceva trovare. Parlavamo di calcio per ore, finché i turisti veri ci riattaccav­ano il telefono di forza.

Bearzot ha avuto un merito che gli è stato poco riconosciu­to. È stato il primo tecnico europeo che abbiamo avuto in Italia. Bearzot non ha mai allenato una squadra di club, è sempre stato un tecnico federale. Il suo mestiere consisteva nel guardare il calcio degli altri. Allora non c’era la television­e, se volevi vedere l’Inghilterr­a o la Turchia dovevi prendere un aereo e volare alla partita. Vedeva più calcio estero che italiano, così fece giocare per la prima volta l’Italia in modo poco italiano. La nazionale del 1978, quarta in Argentina, è stata la sua più bella. Quella del 1982 che vinse era già un compromess­o, Gentile per esempio marcò a uomo Maradona, e in finale il ct mise Cabrini mediano a marcare Kaltz. Ma pensava il calcio come un gioco di tutti dove il ruolo non era un compito ma un inizio.

Fu Arrigo Sacchi a far tornare gli allenatori di club in nazionale, era il 1992. Sacchi è stato nel calcio un po’ come Wittgenste­in in filosofia, genio puro ossessiona­to dalla sua idea iniziale. Risultati ne ha ottenuti anche in nazionale, ma non credo fosse il suo mestiere. Il ct è soprattutt­o un selezionat­ore, non può allenare. Non ha i giocatori, non sono suoi.

Questo lo capì benissimo Lippi. Tornò a un calcio pratico, molto moderno e italiano, divenne l’amico duro dei giocatori, non aveva pregiudizi, non sceglieva grandi scuole. Gestiva le partite secondo obiettivi minimi, ma sempre diversi. Con Lippi si chiude il cerchio iniziato con Pozzo. Più uomo di mondo Lippi, più d’immagine, più furbo, ma della stessa pasta dura di Pozzo. Sono i cardini da cui è nato Conte.

Adesso che tocca a Ventura stiamo andando in territori diversi. Ventura è un vecchio signore che ha navigato tutti i mari. Non ha mai allenato una grande squadra, ma l’avrebbe meritata. È pacato e ha buon senso, non sbaglierà mai molto. Gli piace inventare una cosa a partita, non è banale, conosce bene il calcio. Ama aspettare e ripartire. Insegnerà molte cose se saprà anche impararne qualcuna.

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Fonte: Figc
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