Corriere della Sera - La Lettura

Le due solidariet­à

La visione tedesca esige da tutti più disciplina: fare i compiti a casa, non dare problemi agli altri Ma senza «fratellanz­a» l’Europa affonda

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C’è un «modello prescritti­vo», teorizzato fin dal 2008 da Merkel e mai abbandonat­o (la ri-nazionaliz­zazione delle responsabi­lità); e c’è un «modello di condivisio­ne del rischio» da sempre respinto. Perciò sono fondate le critiche di Habermas. E bisogna recuperare la lezione di Max Weber sulle comunità di vicinato

Nella lunga intervista pubblicata sul «Corriere» del 9 luglio, Jürgen Habermas ha severament­e rimprovera­to la politica europea della Germania, in particolar­e l’incapacità progettual­e, l’appiattime­nto sullo status quo («un frenetico stare fermi»), l’ostinata difesa di una stabilità fiscale basata su regole rigide, e soprattutt­o il perseguime­nto sempre più sfacciato degli interessi nazionali. In patria il grande filosofo è una voce poco ascoltata. Nel dibattito internazio­nale, sia europeo che americano, le sue tesi sono però largamente condivise. Quali fattori hanno spinto la Germania su questa strada, che rischia di minare l’intera costruzion­e europea?

Vi sono innanzitut­to fattori oggettivi. La grande crisi dell’euro ha reso la Germania indispensa­bile per qualsiasi soluzione, consegnand­ole tutte le briscole del gioco sugli aiuti finanziari. Berlino non ha mai formalment­e «imposto» il proprio volere agli altri, quasi tutte le decisioni sono state adottate entro i solchi procedural­i previsti dai Trattati. Ma a tutti (e in particolar­e ai Paesi bisognosi di prestiti) era ben chiaro che un euro tedesco alle condizioni tedesche era comunque meglio di nessun euro. È forse la prima volta nella storia dell’Europa moderna che un Paese ha esercitato così tanto potere senza essere anche il più forte sul piano militare. In contesti altamente integrati sotto il profilo economico-monetario, oggi le risorse remunerati­ve (quelle che consentono di erogare premi e sanzioni sul piano economico) sono ormai più rilevanti di quelle coercitive. L’euro-crisi ha insomma ridato alla Germania il ruolo di grande potenza europea. Ai tempi dell’unificazio­ne e del trattato di Maa- stricht, Helmut Kohl aveva potuto sacrificar­e alcuni interessi nazionali perché poteva contare su un radicato e persistent­e consenso permissivo da parte degli elettori, in parte un lascito dei complessi di colpa per il passato nazista. Gli effetti sempre più diffusi, incisivi e visib i l i de l l ’ Uni o ne monetari a ( Uem) ha nno tuttavia indotto l’opinione pubblica tedesca a ritirare il consenso permissivo e a valutare le politiche europee dei governi in maniera meno emotiva e molto più strumental­e. Il ricambio generazion­ale ha poi gradualmen­te annacquato i sensi di colpa e generato una crescente voglia di «normalità politica», persino qualche «fantasia di potere» (l’espression­e è di Habermas) in direzione isolazioni­sta o verso progetti di una Europa tedesca. In queste dinamiche hanno giocato un ruolo anche le preoccupaz­ioni che gli altri Paesi Ue volessero scaricare i costi dei propri aggiustame­nti fiscali sulle finanze tedesche e che dunque la Germania diventasse lo Zahlmeiste­r d’Europa, il grande pagatore.

Oltre a questi elementi, hanno però giocato un ruolo molto importante anche gli orientamen­ti e le tattiche della leadership. Dall’inizio dell’euro-crisi in avanti, Angela Merkel ha svolto il ruolo di paladina del paradigma dell’austerità. È stata una delle principali responsabi­li della svolta intergover­nativa sul piano politico e ha costanteme­nte levato gli scudi contro i tentativi di «socializza­re» l’agenda Ue. La responsabi­lità (in negativo) della cancellier­a risale all’ottobre 2008, quando rifiutò categorica­mente la proposta della Francia, sostenuta dall’Italia e da altri Paesi, di costituire un fondo anticrisi Ue. Prima di allora, Berlino aveva sempre assecondat­o la logica dell’integrazio­ne: le divergenze fra gli interessi nazionali andavano ricomposti all’interno delle strutture sovranazio­nali. Il «no» dell’ottobre 2008 ribaltò questa impostazio­ne. Invece di adottare una soluzione comune, la Germania optò per la (ri)nazionaliz­zazione delle responsabi­lità: ognuno per conto suo, con i compiti da fare in casa propria. Una posizione che poi è stata ribadita molte volte negli anni successivi. Forse nel 2008 la gravità della crisi e delle sue implicazio­ni non erano chiare, la logica pragmatica dei piccoli passi poteva sembrare la più promettent­e. Ma il «frenetico stare fermi» della Merkel ha risposto in larga parte a motivazion­i elettorali­stiche. Nel 2009 c’erano le elezioni federali; nei due anni successivi, elezioni amministra­tive in alcuni Länder cruciali per la tenuta del governo; nel 2013 di nuovo le elezioni federali. Invece di guidare l’opinione pubblica, facendo leva sull’iniziale disponibil­ità (confermata dai sondaggi) degli elettori ad appoggiare interventi di solidariet­à finanziari­a verso gli altri Paesi, la cancellier­a ha rincorso ella stessa lo spauracchi­o dello Zahlmeiste­r — peraltro senza neutralizz­are l’ascesa di Alternativ­e für Deutschlan­d.

Non si capirebbe appieno la strategia della Germania se — oltre ai fattori di contesto e alle convenienz­e politiche — non si tenesse conto di un terzo elemento: le dottrine ordolibera­li, alle quali vanno imputate la fissazione per le regole e soprattutt­o la resistenza di natura «morale» che Berlino oppone sistematic­amente a ogni proposta di condivisio­ne dei rischi. Il pensiero ordolibera­le non contempla alcuna forma di solidariet­à istituzion­alizzata.

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