Corriere della Sera - La Lettura
Un boss malinconico e nichilista Lettere da una latitanza infinita
«Non amo parlare di me stesso e poi oramai è da anni che sono gli altri a parlare di me e magari ne sanno più di me medesimo: credo, mio malgrado, di essere diventato il Malaussène di tutti e di tutto...». Questa curiosa dichiarazione di inesistenza in vita, con richiamo a uno dei capri espiatori più famosi della letteratura contemporanea — il personaggio di Daniel Pennac — è firmata dal super latitante Matteo Messina Denaro. Del capo di Cosa nostra — considerato l’erede di Bernardo Provenzano, anche prima della recentissima morte del boss dei boss, in carcere da un decennio — non si possiedono immagini e non si hanno notizie da vent’anni. Di lui, finito nella top ten dei ricercati globali, narrano infiniti faldoni negli archivi delle criminal pol di mezzo mondo, ma esistono anche queste singolari tracce letterarie, pubblicate da Stampa Alternativa (2008, a cura di Salvatore Mugno). Sono cinque missive, ben più lunghe
e più articolate dei classici «pizzini». Lettere a Svetonio. Il capo di Cosa nostra si racconta
classifica e analizza la corrispondenza tra Denaro (che si firma Alessio) e un ex sindaco di Castelvetrano, Tonino Vaccarino, che indossò, pare, i panni di Svetonio per conto dei servizi segreti nel tentativo di stanare il boss. O, addirittura, di convincerlo a costituirsi. Le lettere sono barocche, malinconiche, pervase da una filosofia laica e nichilista fuori dai luoghi comuni culturali del Padrino: «Non sono credente... Dio non c’era più... oggi vivo per come il fato mi ha destinato». Portano in un mondo senza spazio e senza tempo, nell’universo imploso dell’impossibilità di dire.