Corriere della Sera - La Lettura
Amori e magie di Baba Dunja, l’allegra nonna di Cernobyl
L’autrice russotedesca Alina Bronsky mette in scena un’attempata protagonista. Cinica, navigata, dotata di un’arguzia affilata, vive in un paese immaginario a due passi dal luogo del disastro nucleare. Dove torna per rifarsi una vita
«Ecomunque a sapere troppe cose s’ invecchia e vengono le rughe, è un proverbio russo». Veniva messa in guardia così, con un appello alla saggezza popolare, la giovane disincantata protagonista del romanzo con cui Alina Bronsky, immigrata russa in Germania, allora trentenne, nel 2008 debuttò in letteratura e conquistò il pubblico tedesco con un bestseller oggi adottato nei programmi delle letture scolastiche. Si intitolava Scherbenpark, tradotto tempestivamente dalle edizioni e/o con il titolo La vendetta di Sasha. È perfino più sveglia e smagata della vendicativa ragazzetta al centro del romanzo di esordio l’eroina dell’ultimo libro dell’autrice russo-tedesca, L’ultimo amore di Baba Dunja.
È cinica, navigata, ben più che anzianotta, per tutta la gente del paese è una «Baba», cioè una nonna, e non ha nulla da temere dalle conseguenze della sua antica sapienza e perspicacia. Non ha paura di invecchiare, delle rughe se ne fa un baffo e al repertorio della saggezza popolare potrebbe aggiungere un gustoso campionario di sentenze e di boutade.
Dotata di armi simili, di un’arguzia affilata, di uno humour feroce e, soprattutto, dell’età — «non ho mica più 82 anni!», deve di tanto in tanto ricordare agli altri e a se stessa — è immune, invulnerabile come un supereroe. Figurarsi se si fa intimidire dai rischi di avventurarsi su un terreno contaminato, su un campo irradiato, in quella che a tutti gli effetti, e non solo per chi, stando all’anagrafe, ha un piede nella fossa, è definita la «zona della morte». Perciò non si fa scrupoli di ritornare nella sua terra natia, a Cernovo — un paesino di fantasia desolato, completamente evacuato da una trentina d’anni, dai tempi del disastro nucleare, che si immagina situato a due passi da Cernobyl — e, qui, di rifarsi una vita. All’inizio, dopo il suo coraggioso ritorno, non c’erano che lei e la quiete. Poi, pian piano, una dopo l’altra, si erano illuminate le finestre delle altre case abbandonate lì attorno. C’era ancora l’elettricità, mancava l’acqua corrente, ma tutti pote- vano attingere da un pozzo, la terra degli orti era prodigiosamente fertile e, oltre ai ragni capaci di tessere tele in forme nuove, oltre alle cicale capaci di intonare nuovi canti, c’era del pollame e un paio di capre.
Non che il villaggio si fosse ripopolato. Alla fine gli abitanti redivivi — di fatto una squadra di morti viventi — si potevano contare sulle dita di due mani. E a rigore non formavano nemmeno una comunità: sebbene, quattro gatti com’erano, finissero col sapere tutto l’uno dell’altro — ciascuno avrebbe potuto dire con esattezza quante volte il proprio vicino si rigirava nel letto di notte — non avevano realmente voglia di stare in compagnia. Ma, a dispetto della tacita condanna a cui si erano esposti — in barba al buon senso e alle preoccupazioni dei familiari: «Ma mamma, chi in piena coscienza vorrebbe tornare nella zona della morte?», cercava di opporsi Irina, la figlia di Baba Dunja, in salvo in Germania —, a dispetto della solitudine e della vecchiaia, riescono a vivere assieme una specie di idillio, una meravigliosa, appena un po’ macabra, fiaba sui generis.
Sull’incomponibile contrasto inferno radioattivo / paradiso terrestre Alina Bronsky ha giocato forse solo all’inizio, nella fase della concezione del romanzo. Al paradiso la sua Baba Dunja non credeva neanche da piccola: neppure da bambina pensava «che si potesse raggomitolare nelle nuvole come si fa con un piumone». E anche le ricadute infernali dell’esplosione della centrale non la convincono del tutto: «Le radiazioni non possono certo essere ritenute responsabili di ogni forma di demenza che compare sulla terra», si dice. Così, in quel suo speciale interregno, un po’ regno fatato, un po’ metafora della condizione di qualsiasi creatura mortale — «Se si ferma qui la bambina morirà» dice allarmata una vicina all’arrivo di una giovane straniera. «Certo che morirà, tutti moriremo» risponde secca Dunja come dire «che scoperta» —, assapora i suoi momenti di magia: l’arrivo della neve che attutisce anche i sogni, il ritorno delle api sui fiori gialli di zucca, il colore dorato del brodo preparato dopo aver finalmente tirato il collo al gallo di Marja. Sorride delle beghe della quotidianità: «Se alla mia età mi stupissi ancora degli esseri umani, non mi resterebbe nemmeno il tempo di lavarmi i denti». E gode di un’assoluta soprannaturale libertà: «Il tempo da noi non esiste, non ci sono termini o scadenze, mettiamo in scena la nostra giornata come fanno i bambini con le bambole».
Si imbarca perfino in un ultimo amore. Con il che non si intende certo la storia col vecchio Sidorov, il vegliardo che chiede la sua mano con uno scambio di battute singolare: «— Ti dirò una cosa. — Sono tutta orecchi. — Tu sei una donna. — Esatto. — E io un uomo. — Se lo dici tu. — Sposiamoci Dunja», cui segue un accesso di tosse fino alle lacrime provocato dal tè andato di traverso e scambiato per un segno di commozione. È invece il sentimento che nasce con l’arrivo a sorpresa di una lettera della nipote Laura, discendente sconosciuta, adolescente tormentata, figlia di sua figlia, di quella Irina cui Baba non è riuscita a insegnare «a stare bene nella vita», come ammette tra sensi di colpa. È scritta in una lingua straniera — inglese? tedesco? — e illeggibile per la nonna. «Resterò in vita finché non riuscirò a leggere ciò che mi hai scritto» dice a se stessa la vecchia Dunja nel finale del libro.
Che resta aperto, come l’amore, verso il futuro.
Futuro Un vegliardo che chiede la sua mano e una lettera a sorpresa scritta in una lingua che non conosce, portano a un finale aperto