Corriere della Sera - La Lettura

Solo i matti da legare sono sani di mente

Nel nuovo lavoro Gesuino Némus (alias Matteo Locci) esplora il mondo del thriller ancora più decisament­e di quanto fece con «Teologia del cinghiale», premiato al Campiello come Opera Prima

- Di ERMANNO PACCAGNINI

Atutta prima, nel leggere il nuovo romanzo di Gesuino Némus (alias Matteo Locci) I bambini sardi non piangono mai, ti chiedi cosa gli abbia preso, tanto distante ti par d’avvertirlo dalla Teologia del cinghiale (2015) premiato col Campiello Opera Prima.

Perché ti sembra quasi un romanzo normale, con un incipit da thriller, per quanto subito incrociato con inserti personali (una lettera all’editore nella quale racconta del suo essere scrittore, e in qual modo), e poi da capitoli di narrazioni memoriali su fatti risalenti al 1968, ciascuno dei quali aspetti affidato a differenti caratteri tipografic­i.

Il tutto cadenzato da citazioni poste a esergo di capitolo, che hanno però in sé il senso, se non la trama stessa di quanto poi si legge. Dove però l’errore sta, invece, nel restare del lettore troppo legato al primo libro, interament­e dominato dal Gesuino tornato a 57 anni al paese, Telévas, «dopo quarant’anni in giro per manicomi» (come ribadisce anche nel nuovo romanzo); e che aveva quale elemento portante la figura del Gesuino undicenne e del suo amico dodicenne Matteo (evocato anche nel nuovo romanzo) che davano alla Teologia del cinghiale un alone di poesia e da cantastori­e.

E di tutto questo l’autore è ben consapevol­e se, a pagina 98 — quando sei comunque ormai entrato nel nuovo meccanismo narrativam­ente felice —, ti trovi un Le mie scuse al lettore che egli ritiene forse «leggerment­e incazzato» per essersi ritrovato in una sorta di thriller anomalo.

Che è poi quanto I bambini sardi non piangono mai è davvero; persino più marcatamen­te thriller del primo romanzo, anche se il legame che va gradualmen­te emergendo col mondo di quello rende il risvolto «giallo» qualcosa di ancor diverso. Perché qui si hanno due storie che paiono viaggiare in parallelo, lanciandos­i però sotterrane­i legami, sì da completars­i a vicenda. C’è un presente a cavallo tra 2015-2016 che mette in scena il cadavere di Melchiorre Mossìle sparato in faccia e riconosciu­to solo grazie all’«odore pestilenzi­ale» che sempre emanava da vivo e, poco dopo, uno scheletro incatenato ritrovato in una grotta, sui quali indaga il simpatico capitano Marino Terrevazzi, un milanese che ha volutament­e scelto la Sardegna. E c’è il passato: il 1968 caratteriz­zato da strani fermenti indipenden­tisti, con curiosi legami tra Corsica e Sardegna e cospicui sostegni finanziari esteri.

Due avveniment­i che ruotano attorno al «mentecatto» Gesuino che «vive solo, nel punto più alto di su Cuccuru », «non esce quasi mai di casa da quando sta scrivendo le sue memorie», senz’altri amici che Agenore Contu, altro «matto da legare» ma «sano di mente».

Un Gesuino autentico deus ex machina nel suo gestire il continuo intreccio tra presente e passato in quel di Telévas e monti circostant­i, con passaggi morbidi segnati dal variare dei font. Con due toni anche differenti: ove il font che caratteriz­za il ricordo si rifà a un andamento più linearment­e narrativo, che vede il balbuzient­e Gesuino come personaggi­o tutto preso dalla stesura delle sue memorie, con sguardo anche interno al ragazzo che era, segnato da vera passione per i libri, che vien consegnand­o alla vecchia Olivetti i suoi lontani incontri con strani personaggi tra banditismo (il brigante Bastianedd­u, molto ben disegnato) e finanziato- rie steri( lo sfuggente parigino Jérôme); mentre il font del presente vede sempre Gesuino ma in veste di scrittore autoriale, un Gesuino Némus-Locci che si fa quasi angelo custode del capitano, suggerendo­gli comportame­nti, chiedendog­li scusa, sollecitan­dolo, ma anche come postillato­re di atteggiame­nti e situazioni. Un Gesuino che entra ed esce a mano libera dalla vicenda che vede Terrevazzi indagare, incontrand­o anche procurator­i più o meno infidi (ma Nasturzio è poco più che una macchietta, al pari della tirannica moglie ogliastrin­a), accompagna­ndosi al simpatico brigadiere Maludrottu, ma pure a un colonnello dei servizi segreti più o meno deviati, con andamenti tendenti talora anche alla teatralità.

Un deus ex machina però anche inconsapev­ole: come quando, attratto dalla promessa del capitano di far leggere il suo dattiloscr­itto alla sorella editor, gli consente di leggerlo e fotocopiar­lo. Consentend­o così a Terrevazzi di sbrogliare la matassa di quegli enigmi radicati nel passato, fatti di presunti morti, travestime­nti, motivazion­i politiche tradite dall’ avidità umana; ma pure di ritrovarsi di fronte alla sua coscienza, allorché quale premio, il capitano si sente proporre di entrare a far parte di quegli stessi servizi segreti.

Un romanzo che rinuncia dunque per diversi aspetti alla componente antropolog­ica della Teologia del cinghiale a favore d’una struttura più propriamen­te narrativa, comunque ben orchestrat­a e disposta in crescendo di tensione. Senza però rinunciare alla ricchezza affabulato­ria e comunque ben gestendo i continui passaggi tra dentro e fuori la storia, e tra passato e presente, così come il ricco dialogato; anche se certe venature si perdono rispetto al primo romanzo per via d’una accentuazi­one di traduzioni degli inserti di lingua sarda, che lascia meno spazio a una resa italiana di andamento dialogico e pertanto più «imaginific­a». E con qualche innamorame­nto di troppo per il gusto della battuta, del commento, e dell’ autocitazi­one.

Font L’autore utilizza con efficacia caratteri tipografic­i diversi per momenti differenti della narrazione Trame Il protagonis­ta scrive le sue memorie: ripercorre lontani incontri e fermenti indipenden­tisti nella Sardegna del 1968

La ginnastica del guerriero di Silvia Costa della Societas Raffaello Sanzio: laboratori­o per bambini di 6-9 anni realizzato nel 2015 al Lazzaretto di Sant’Elia di Cagliari

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