Corriere della Sera - La Lettura
Il quotidiano senza curarsi dell’eterno
La nuova raccolta di Alida Airaghi esce, ancora una volta, da un piccolo editore: un racconto premuroso di figli e amanti, oggetti e animali, alberi che aspettano «lo squillo festoso dell’estate»
Aogni suo ritorno Alida Airaghi continua ad apparire come una scrittrice in qualche misura nuova. La scelta di pubblicare non solo poco, ma da piccoli e comunque selezionati editori, sembra infatti averla preservata dagli automatismi e dalla prevedibilità che finiscono quasi sempre per irrigidire la definizione pubblica di un poeta. Già a inizio millennio un estimatore eccellente della sua poesia, Alfonso Berardinelli, poteva allora ricordarla come un esempio «di poeta realmente esistente ma quasi introvabile, perché editorialmente in esilio». Compresa nel 1984 nella terza silloge dei
Nuovi poeti italiani curata da Walter Siti per Einaudi, è stata inclusa quasi trent’anni dopo, nel 2012, anche nel sesto volume della stessa collana (curato questo da Giovanna Rosadini). Sempre «nuova», dunque. Se non si tratta solo di un caso, se ne potrebbe dedurre che l’esilio editoriale, quando elettivo, mantenga comunque una presenza giovane e fresca. Leggendo ora il nuovo libro dell’Airaghi,
Elegie del risveglio, uscito dal piccolo editore marchigiano Sigismundus, viene subito da chiedersi se qualcosa della particolare figura dell’Airaghi trovi corrispondenza nella natura della sua poesia. Credo che si possa rispondere tutto sommato affermativamente, perché la visione, ma diciamo pure l’ideologia a cui questi versi fanno capo, contrappone in modo molto netto, quasi dualistico, la forza, la positività, la qualità anche etica della nuda vita, cioè della vita elementare, basica, nascosta, della vita che semplicemente e irresistibilmente accade, alla inutile, triste edificazione delle impalcature esistenziali, alla contraffazione dei gesti e dei sentimenti, allo sviamento del rapporto con se stessi e con gli altri, al sormontare della prudenza, del calcolo, dell’ostilità, della paura. Detto altrimenti: alla vittoria di tutto ciò che risulta estrinseco e inessenziale rispetto alla parte migliore dell’uomo. Viene subito in mente quella importante linea di poesia più o meno creatu- rale che ha attraversato il Novecento italiano arrivando fino al presente, da Saba a Penna alla Cavalli alla Donati. E vengono in mente anche, ovviamente, narratrici come l’Ortese o la Morante, con la sua drammatica opposizione tra la storia e la Storia.
Qual è allora, dentro a queste coordinate per altro molto ampie e diversificate, il tratto più specifico di questa poesia? Il «quotidiano esserci del mondo», così viene definito quello che costituisce qui sia un ambito di orientamento esistenziale, sia un motivo d’ispirazione poetica. La presenza, l’immediatezza, l’evidenza, la sacertà del mondo animato, la coincidenza di corpo e spirito, qui ed ora, cioè «senza curarci dell’eterno» o di «sconosciute dimensioni» — è questo che l’Airaghi intende mettere a fuoco e celebrare. Eppure i modi, che propriamente dovrebbero essere quelli del canto, della lode, del ringraziamento, appaiono spesso e vo- lentieri quelli della rivendicazione o del riscatto. La postura è celebrativa almeno quanto difensiva. Anche dal punto di vista ritmico e musicale — l’intonazione decisa, le sonorità marcate, la punteggiatura fitta e distintiva — il discorso poetico appare sempre reattivo e come allertato, mai sintonizzato su una possibile naturalezza del dire. E questo riduce al minimo il rischio dei buoni sentimenti, inevitabilmente presente in una poesia di questa impostazione. Nessuna ingenuità, quanto invece volontà e decisione. L’idillio, se c’è, sarà comunque un idillio in armi.
Il libro ha dimensioni contenute, ma è concepito comunque come una microscopica opera mondo. Basta seguire le dieci sezioni su cui viene scandito per avere un’idea dei temi o delle situazioni a cui la poetica del risveglio viene via via applicata: Risvegli, Amanti, Figli, Vegetali, Animali, Cose, Eroi, Artisti, Geni, Innocenti. E anche se nel pieno dell’atto poetico è difficile distinguere tra i due momenti, nel complesso direi che l’Airaghi dia il suo meglio quando è in armi per difendere piuttosto che per attaccare; o comunque quando pacificazione e scontro, canto e rivendicazione, esultanza e allarme si equilibrano prendendosi le misure a vicenda. Accade infatti che questo equilibrio qui e là si rompa, e che possa prevalere allora l’agiografia (come nella sezione Eroi), oppure un tratto risentito e aggressivo, quello indirizzato contro il nemico, che finisce per contraddire quella specie di capacità di comprensione e di consapevolezza, meglio ancora, di serena e compiuta autocoscienza connaturata alla materia del mondo, di cui la poesia dell’Airaghi intende e sostanzialmente riesce a dar conto. Proprio in questo ambito, si trovano alcuni passaggi davvero risolti e persuasivi. Sulle cose, ad esempio: «Non sanno rifiutare, gli oggetti; dire di no/ alle pretese indelicate di noi che li afferriamo, li consumiamo/ senza ringraziare, senza scusarci, abusandoli». O ancora sugli amanti e i loro corpi e gesti, sull’esempio degli animali, sull’insegnamento offerto dalla vita delle piante: «Ma gli alberi del parco conoscono in che modo/ vestiranno i rami secchi dell’inverno, e attendono/ con fede il primo chiaro a marzo. Così loro premio/ è il tenero verde, lo sbocciare di foglie timorose/ già pronte allo squillo festoso dell’estate».