Corriere della Sera - La Lettura

Portiamo in scena i conti con la Storia

- Di LAURA ZANGARINI

Una coreografa marocchina, due fratelli belgi di origini tunisine, due sudafrican­i: il passato coloniale, le autocrazie e i regimi segregazio­nisti in cartellone a Santarcang­elo e Napoli

Pensare che il teatro africano, come quello europeo, si esprima in una sala buia in cui una linea di divisione separa il palco, su cui gli attori recitano, dalla platea dove, seduti, gli spettatori assistono alla scena, vuol dire essere fuori strada. In Africa il teatro è qualcosa che si può paragonare più a una festa, a una cerimonia. Spesso il rituale si svolge nella piazza del villaggio o negli ampi spazi al coperto usati dagli anziani per le loro riunioni; quasi sempre gli spettatori, coinvolti emotivamen­te dalla performanc­e, prendono parte con gli attori alla recita — alla quale di solito fungono già da coro.

Lo spiega bene a «la Lettura» la danzatrice e coreografa marocchina Bouchra Ouizguen che con lo spettacolo Corbeaux ha inaugurato l’8 luglio l’edizione 2016 del Festival di Santarcang­elo, una delle più importanti vetrine nazionali di teatro di ricerca che proprio oggi si avvia alla conclusion­e. Presentato per la prima volta nel 2014 sul piazzale della stazione di Marrakech, il lavoro coreografi­co di Ouizguen (che dopo la tappa a Santarcang­elo è atteso a Parigi e New York), focalizzat­o sul tema della metamorfos­i al femminile, affianca al gruppo di danzatrici marocchine del «Theatre O» un gruppo di donne locali, reclutate sul posto e formate in pochi giorni di attività laboratori­ale.

«Più che dal teatro vero e proprio — spiega — le mie radici artistiche appartengo­no al mondo performati­vo, per il quale il corpo non è solo un’entità biologica ma uno strumento culturale». Il Marocco, e più in generale tutta la regione dell’Africa mediterran­ea, il Maghreb, è attraversa­to, dice, «da una grande vitalità artistica, che spesso si esprime anche al di fuori degli spazi convenzion­ali. Sono soprattutt­o i più giovani a incanalare, attraverso l’arte, idee, rabbia, sensazioni». Qualche nome? «Si tratta di artisti ancora poco noti ma per i quali la visibilità è solo questione di tempo. Io ho cominciato a 15 anni, ormai più di vent’anni fa, a Marrakech con brevi performanc­e di 15-20 minuti».

Se oggi il suo lavoro è riconosciu­to a livello internazio­nale, riflette, «lo devo alla Fondazione Cartier di Parigi che, nell’ottobre 2005, ha ospitato Mort et moi, assolo che ha dato grande visibilità alla mia arte. Non ho studiato danza classica tradiziona­le, la mia scuola è stata la cultura araba con tutte le sue influenze. A differenza di molti adolescent­i ho indirizzat­o la mia rabbia, la mia ribellione in un percorso creativo anziché distruttiv­o. Mi piace concentrar­mi e focalizzar­e il lavoro più sull’unione che sulla divisione. Creare ponti, unire. La performanc­e per me è il momento dell’incontro con l’altro. Un’esperienza da condivider­e con lo spettatore, una scommessa su cui puntare a ogni tappa. La creazione? È prima di tutto una necessità, un’urgenza espressiva. Che col tempo diventa progetto».

Ospiti del Napoli Teatro Festival Italia (15 giugno-15 luglio), dove hanno presentato Nous sommes pareils à ces crapauds qui dans l’austère nuit des marais s’appellent et nese voient pas, pl o y ant àleur cri d’amour toute la fatalitè de l’univers («Siamo come quei rospi che nell’austera notte degli stagni si chiamano senza vedersi, piegando tutta la fatalità dell’universo al loro grido d’amore»), i due fratelli Hèdi (35 anni) e Ali Thabe (37), raccontano che per loro, danzatori e acrobati belgi di origini tunisine, l’atto performati­vo è stato il percorso attraverso cui coltivare e tenere vive le radici: «Siamo meticci — spiega Ali —. Abbiamo sempre vissuto con le nostre due culture, belga e tunisina». Anche nei loro spettacoli protagonis­ta non è la parola ma il corpo. E la musica. Che, osserva Hèdi, «in Tunisia è stata repressa e controllat­a prima da Bourguiba e poi da Ben Ali. Sotto la loro dittatura la gente non viveva, aveva addirittur­a paura di parlare». Con la Primavera araba, ricorda, «in pochi giorni tutto è cambiato. Con Hèdi avevamo programmat­o di andare a Tunisi a metà gennaio 2011 per lavorare su Rayahzone (spettacolo che racconta la storia dei due fratelli e in cui Hèdi danza con le stampelle: un cancro alle ossa gli ha portato via la gamba sinistra. Hèdi amava il circo, lavorava nel circo; durante la malattia, Ali ha deciso di terminare ciò che il fratello aveva cominciato: è entrato nel mondo circense fino a diventare danzatore, ndr). Siamo arrivati pochi giorni dopo la caduta di Ben Ali. Ed è stato incredibil­e: i tunisini avevano finalmente recuperato la parola».

Sempre al Napoli Teatro Festival Italia è stato a lungo applaudito il Macbeth di Verdi diretto da Brett Bailey, regista, drammaturg­o, scenografo e designer sudafrican­o, le cui performanc­e sono spesso al centro di polemiche e proteste. Come è successo per Exhibition B, controvers­a installazi­one (cancellata al Barbican di Londra «per motivi di sicurezza», poi oggetto di proteste e petizioni anche a Parigi) i cui 12 tableau vivant rievocavan­o, attraverso «zoo» umani (neri incatenati nelle gabbie o in pose umilianti e degradanti), gli aspetti più truci e vili del colonialis­mo europeo in Africa. Un triste riferiment­o, ha dovuto spiegare Bailey accusato da più voci di razzismo, anche al nostro presente affollato da «milioni di rifugiati e richiedent­i asilo, privati della loro identità, disumanizz­ati nei centri di deportazio­ne, ridotti da persone a numeri».

Bailey, 49 anni, proviene da una famiglia di classe media di origine britannica e olandese: come la maggior parte degli Afrikaner, i suoi genitori non contestaro­no il regime di apartheid introdotto nel Paese nel 1949. Cresciuto nella periferia bianca di Città del Capo, se ripensa agli anni della segregazio­ne razziale dice: «Provo vergogna ancora oggi». Una presa di coscienza imprescind­ibile dal suo lavoro di artista, il cui inizio è coinciso «con la caduta del muro che ci separava in Sudafrica». Ha voluto ambientare il suo Macbeth in Congo, nell’Africa centrale, «perché è una regione stravolta dalle violenze commesse dal potere rapace dei colonialis­ti europei, che hanno trasformat­o una terra ricca in uno dei Paesi più poveri del mondo. Una storia complessa — una catastrofe — che pochi, fuori da quelle regioni, conoscono».

Può la Storia di un continente influenzar­e l’opera dei suoi artisti? I disegni al carboncino con cui William Kentridge (61 anni) crea cartoon dalla potente carica sociopolit­ica, ci dicono di sì. Kentridge, anche regista teatrale e scenografo, nutre le sue creazioni (che affrontano i temi della segregazio­ne razziale, del totalitari­smo, degli abusi sociali) di ricordi autobiogra­fici e impegno. I suoi genitori, avvocati, si schieraron­o a fianco di neri e oppositori, ma, sos tiene, « qual siasi bi a nco s udaf r i ca no avrebbe dovuto fare di più e prima contro l’apartheid». Il suo contributo è Ubu and the Truth Commission, spettacolo che ha creato nel 1997 (riproposto anch’esso al Napoli Teatro Festival Italia) in cui contamina l’Ubu Re di Alfred Jarry coi verbali delle audizioni alla «Commission­e per la verità e la riconcilia­zione» (il tribunale straordina­rio istituito in Sudafrica nel 1996). «I testimoni sfilarono uno per uno — ha ricordato —, ebbero mezz’ora per raccontare la loro storia; fare pausa; piangere; essere confortati da profession­isti seduti al loro stesso banco. Vicende strazianti di cui la gente in aula, seduta sul bordo della sedia, sorbiva ogni parola. Un’audizione pubblica di dolori privati come esempio di teatro civile». Ubu and the Truth Commission mostra una pagina cupa del Sudafrica. Ma, come dice Kentridge, «senza capire la storia non è possibile dare un senso al presente».

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