Corriere della Sera - La Lettura
Boudin, il papà degli impressionisti
Le Havre dedica un’antologica al pittore senza il quale Monet non sarebbe stato il grande Monet. Su quelle sabbie di Normandia, sotto quei timidi cieli azzurri, nasce una delle maggiori avventure della storia dell’arte
Acamminare ancora oggi sulle grandi spiagge normanne di Trouville e Deauville, si sente giungere, in grandi matasse di vento e nuvole nel cielo, il flusso del tempo. Tutta la vastità del mondo, che dalla sabbia si spinge verso l’immenso della volta celeste e del mare. Verso quell’altrove che è stato il luogo entro cui hanno preso il largo, graffiate e benedette, le tensioni esistenziali dei romantici. Quelle tensioni che hanno generato alcuni dei vertici della pittura di paesaggio di ogni epoca, da Friedrich a Turner. Ma la nozione di natura comincia ad acquistare in terra di Francia, tra il secondo e il terzo decennio del XIX secolo, un’inclinazione diversa. E proprio nel momento in cui Friedrich pone figure a guardare l’irrisolto dilagare dell’immenso, e Turner s’incunea in quella stagione sua più alta di devozione alle nebbie, ai ghiacci, alle piogge, alle muffe colorate e slabbrate sopra un mare in tempesta.
E prende il via grazie all’esempio di un secondo pittore inglese, che a Turner si affianca in modo diverso nella resa di una natura che sta diventando paesaggio. Il suo nome è John Constable e non si muoverà praticamente mai dalla sua valle natale — la Stour Valley — lunga sei miglia e larga due, attraversata dal corso sinuoso di un fiume. La vasta e bella mostra che il MuMa di Le Havre dedica a Eugène Boudin fino al 26 settembre ( L’atelier de la lumière, a cura di Annette Haudiquet, Virginie Delcourt, Anne-Marie Bergeret-Gourbin e Laurent Manoeuvre), dimostra con grande chiarezza come quel nuovo dirigersi dello sguardo potesse rappresentare la vera novità in pittura. Prediligere il dato quotidiano e della ferialità, scoprire l’infinito nel prato davanti casa, nel giardino dell’infanzia. Del resto, la presenza di Constable — che chiaramente non vi andò di persona — al Salon parigino del 1822, segna per i pittori della quasi nascente scuola di Barbizon un punto fermo di scoperta e di meraviglia. Tali per esempio, di fronte alle opere del maestro inglese, le dichiarazioni di Constant Troyon e soprattutto di Camille Corot. Da quel punto, da quel tempo, venne alla pittura francese, ma non solo, la convinzione che un’alternativa possibile ci fosse, tra un classicismo ormai ripetitivo e stanco da un lato e il dato romantico dall’altro.
Occasione preziosa, quella offerta dal museo di Le Havre. Perché Boudin è un autore più citato che destinatario di grandi esposizioni di carattere antologico, come questa con le sue duecento opere. Citato sì, ma non particolarmente noto, che nelle rassegne sulla pittura francese del secondo Ottocento procede a gran passo verso la pittura degli impressionisti, senza considerare in che modo si sia formata, a cosa abbia reagito e su quali basi di nuova prensilità dello sguardo abbia arricchito la sua sostanza. E prima ancora, l’abbia fatta nascere. La mostra in questo senso si apre con una grande tela realizzata tra il 1853 e il 1854, dunque un Boudin trentenne. Intitolata La tempesta, è un d’après da Jacob van Ruisdael, il grande pittore olandese di metà Seicento che letteralmente inventa e crea il paesaggio moderno. Non è un caso che le molte visioni turneriane di navi mosse sulle onde da un vento di burrasca abbiano proprio in van Ruisdael il loro punto di stacco. Ma ancor di più ciò avviene per le immagini di campagna che Constable stilisticamente, e sentimentalmente, desume dall’artista olandese. Ecco quindi il tramite che mette in contatto diretto van Ruisdael con la grande arte fran- cese di paesaggio del XIX secolo, dapprima Corot e successivamente proprio Boudin.
Boudin non si sottrae a questo fascino, e il mare spesso agitato davanti alle coste della sua Normandia diventa spazio per un’esercitazione di storia. Nella quale non ha ovviamente ancora titolo d’ingresso il segno di quella atmosfericità che in seguito costituirà il fondamento della sua arte. Perché già in questi momenti, di prima presa di coscienza dei temi della pittura, di Boudin si legge questa dichiarazione: «La natura mi parla spesso, ma i tentativi sono terribilmente lunghi».
Sono parole che riecheggiano quelle tante volte dette e scritte da Monet, si trovasse lui alto sopra il corso della Senna o nel suo atelier naturale di Giverny. Non potrà sfuggire che in una lunga intervista concessa da Monet in occasione dei suoi ottant’anni, nel 1920, alla domanda relativa al suo rapporto giovanile con Boudin, il grande maestro risponde evocando più che la tecnica, la consuetudine che Boudin stesso gli aveva insegnato di camminare all’aria aperta, sulla spiaggia e lungo il mare, per catturare i movimenti della luce. E infatti, quando nel 1856 viene spinto dall’artista di sedici anni più anziano a dipingere all’aria aperta nei dintorni di Le Havre, nasce in Monet la convinzione che la natura sia il solo scrigno entro il quale possano avvenire i miracoli della rigenerazione luminosa.
La mostra parte dunque da qui, da quella prima consapevolezza che Boudin possiede rispetto al decisivo incastonarsi dello sguardo in una natura quotidianamente vissuta e percorsa. Al pari delle cosmogonie orientali, per Boudin vedere è vivere e i luoghi della sua giovinezza, tra Honfleur e Le Havre, diventano il teatro non più scenografato entro cui la pittura genera le sue vette. Oltre alla spiaggia e al mare, la fattoria Saint-Siméon, appena fuori Honfleur sulla bellissima strada costiera che conduce a Trouville, diventa incanto del vedere e del colore. Luogo nel quale, a metà degli anni Sessanta, giungeranno anche i giovani impressionisti, da Monet a Bazille, alternandolo con le settimane trascorse, più a ridosso di Parigi, nella foresta di Fontainebleau.
Letta in questo modo, la vicenda di Boudin pittore ha un suo lato quasi educativo soprattutto per Monet, ma ha profondità e bellezza nella loro intrinseca importanza. Presente con dieci opere alla prima mostra degli impressionisti, nell’aprile 1874, nello studio parigino di Nadar, egli ha ugualmente partecipato molte volte al Salon, esponendovi, per esempio nella fase finale della sua carriera, grandi tele di straordinaria suggestione, che però viravano verso il senso di una composizione molto architettata del dato di natura. Per cui il Boudin più autentico va soprattutto ricercato, oltre che nei bellissimi studi en-plein-air di boschi e campagne, e ancor di più dei cieli tormentati di Normandia, nelle scene abitate di spiagge che realizza negli anni Sessanta tra Deauville e ancor di più Trouville, vero centro di questo suo mondo.
Sono del 1862 le sue prime scene di spiaggia, nel momento in cui, forse non casualmente, incontra il pittore di origine olandese Jongkind, altra figura non secondaria nella preparazione del terreno per il nuovo sguardo di Monet. Sono visioni, queste di Boudin, di grande freschezza e inquadrano i primi esiti di un turismo che si sta affermando lungo la costa, grazie al completamento della linea ferroviaria dalla capitale e alla costruzione dei primi alberghi. Strutture destinate specialmente all’alta borghesia parigina, che così poteva trovare un luogo diverso rispetto alla Senna per i suoi svaghi estivi. Boudin fa pittura della vita quotidiana, della curiosità dello sguardo, ma anche del suo estendersi nella visione allargata dei cieli, entro i quali, sempre, trascorrono nuvole. Anticipando alcuni degli ormai giungenti canoni dell’aurorale impressionismo, egli inserisce le figure nel paesaggio libero, mettendo in contatto la consuetudine della vita con l’assoluto della natura. Di qui a pochissimo, toccherà a Monet portare a perfezione questo equilibrio. Eppure, Monet senza Boudin non sarebbe stato il grande Monet. Su quelle sabbie di Normandia, sotto quei cieli segnati dai primi timidi azzurri, nasce così una delle maggiori avventure dell’intera storia dell’arte.