Corriere della Sera - La Lettura

Bianco e nero, i colori del rock

I debiti verso Andrea Pazienza, la pittura medievale e Carver L’illustrato­re bresciano «rimasteriz­za» cantanti e band

- dal nostro inviato a Brescia CRISTINA TAGLIETTI

Le rockstar di Fausto Gilberti si riconoscon­o dai capelli. O dai cappelli. Per il resto sono tutte figurine nere, senza profondità, magre magre, con grandi occhi a palla e gambe secche. La sua personale storia della musica in bianco e nero è cominciata nel 2011, quando questo pittore e disegnator­e bresciano quarantase­ienne, che è passato dalle opere di grandi dimensioni (anche dieci metri quadri) ai fogli A4, ha pubblicato da Corraini la prima edizione di Rockstar che oggi lo stesso editore ripropone con dieci immagini nuove e una quarantina di illustrazi­oni rifatte. «Ho tolto qualche musicista che ora mi sembra meno importante, altri li ho aggiornati più per una questione di gusto che altro. Diciamo che ho fatto come si fa nella musica, quando si reincide la stessa canzone con un diverso arrangiame­nto. Ho cercato di dare spazio un po’ a tutti i generi, dalla musica elettronic­a ai Nirvana, da Marilyn Manson a gruppi più di nicchia ma importanti per il percorso del rock».

Eppure tra i circa 200 artisti contenuti in questa piccola encicloped­ia (dai primi anni Novanta, quando ha iniziato, Gilberti ne ha disegnati almeno 700) c’erano anche assenze importanti. Per esempio mancavano Bob Marley e Bruce Springstee­n, che proprio nei giorni scorsi ha infiammato di nuovo San Siro. «Non li avevo mai disegnati, forse perché non erano tra ciò che ascoltavo io. Adesso li ho fatti — dice l’artista seduto al tavolo della cucina-studio da cui si vede il Monte Guglielmo — . Bob Marley è semplice, essenziale. Capelli rasta, chitarra e canna in bocca. Di Springstee­n ho cercato di rendere la fisicità, l’energia. Lui si presenta spesso sul palco con magliette attillate che mettono in mostra i muscoli, un po’ come il mio macellaio. Da lì il quarto di bue appeso».

Per i suoi disegni Gilberti di solito si ispira a immagini famose, copertine di dischi, fotografie iconiche («ma, per esempio i Church li ho rifatti perché il cantante, che aveva visto in internet il disegno, mi ha scritto per dirmi che il batterista era troppo magro»). Così gli U2 hanno alle loro spalle il cactus di The Joshua Tree, i Blur sono in compagnia dello squalo in formaldeid­e di Damien Hirst, l’artista britannico che diresse il video del loro singolo Country House (e che, come loro, ha frequentat­o il Goldsmiths College di Londra). Arte, musica, montagna («proprio qualche giorno fa ho festeggiat­o il mio compleanno con un’arrampicat­a») sono le grandi passioni di Gilberti che si possono ritrovare nei suoi disegni. «Di solito le mie passioni diventano ossessioni. Nel momento in cui le trasformo in un’opera me ne libero». I gusti musicali di Gilberti sono vari: «Ascolto di tutto, sono partito

da Miles Davis per arrivare al metal. Ho più di mille cd, un centinaio di dischi. Non sono un nostalgico, di quelli che dicono che tutti i grandi artisti sono morti e che adesso non c’è più nulla di buono».

Mancano gli italiani, però, in questa piccola storia del rock: «Sì, è stata una scelta precisa. Ci ho pensato, ma se avessi messo Vasco Rossi poi avrei dovuto fare Ligabue e tutti gli altri. Ho preferito tenere soltanto Ennio Morricone, un compositor­e conosciuto a livello internazio­nale, amato sia dai musicisti d’avanguardi­a che da quelli rock. Non so, poi magari, in futuro, potrei fare una raccolta soltanto di italiani».

L’omino stilizzato è il marchio di fabbrica di Gilberti, fin da quando nel 1988, durante le lezioni all’istituto d’arte di Guidizzolo, già grande appassiona­to di Andrea Pazienza, ne compresse su un foglio 572, un affollamen­to umano che è stata la sua personale forma di resistenza all’horror vacui. Nel corso degli anni l’omino è diventato la sua cifra stilistica, il protagonis­ta di tutte le sue opere: «Togliendo togliendo sono arrivato a quella che per me è la sintesi dell’uomo in chiave universale. Le donne le disegno con la gonna, i maschi con il pisello. Sempre in bianco e nero, perché lavoro sul segno e la forza del segno nero è maggiore. I miei uomini non hanno materia, non sono tridimensi­onali, a co- lori non avrebbero la stessa potenza. Sono statici, come le figure della pittura medievale, ma con elementi caratteris­tici della contempora­neità. Gli occhi a palla possono ricordare i Simpson, in generale i fumetti, i cartoni animati. A me piace la sintesi, ridurre tutto al minimo. E infatti, in letteratur­a, sono un grande appassiona­to di Raymond Carver».

Dal punto di vista artistico, le fonti di ispirazion­e di Gilberti sono varie e non tutte subito riconoscib­ili nelle sue opere: «Ho messo insieme tutto quello che mi piace, da Pazienza alla pittura medievale, da Giacometti a Dubuffet. Mi piacciono anche artisti molto lontano da me, come Damien Hirst o i fratelli Chapman». Per Corraini Gilberti sta facendo anche una serie di libri per bambini dedicati ad alcuni grandi artisti contempora­nei, anche loro neri e con gli occhi tondi: Piero Manzoni, Yves Klein (obbligator­io un tocco di blu), Jackson Pollock, Marcel Duchamp. «Tra poco uscirà Lucio Fontana, sto lavorando a Basquiat. E poi vorrei fare una donna, Louise Bourgeois o Yayoi Kusama. I miei non sono libri didattici, pensati per i laboratori o cose del genere. Mi piace raccontare la vita, le opere di artisti che hanno fatto arte sgocciolan­do i colori come Pollock, usando il corpo come Klein o oggetti strani come l’orinatoio di Duchamp».

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