Corriere della Sera - La Lettura
Cuba, la stessa pasta della Sicilia
Palermo espone le fotografie di Ernesto Bazan, per quattordici anni all’Avana. «Lì ho trovato la generosità della mia terra»
La notte prima di morire, il 18 maggio 1895, il rivoluzionario José Martí, accampato a Boca de Dos Rios, scrisse un appunto sulla libertà di Cuba e il timore che gli Stati Uniti potessero estendere la loro influenza fino alle Antille. Il perché di tanto timore lo spiegò in una riga d’inchiostro, la sua ultima: «Ho vissuto nel mostro e ne conosco le viscere». Il mostro. L’America. New York e Miami, dove Martí aveva abitato tra il 1880 e il 1894.
«Anch’io ho vissuto nelle viscere di quello che per alcuni era un mostro», dice da Brooklyn Ernesto Bazan, «ma per me non lo è stato». Sono stati quattordici anni intensi quelli che il fotografo ha trascorso a Cuba, dal 1992 al 2006, fin quando i castristi gli intimarono di scegliere: o smetteva d’insegnare nei suoi workshop o lasciava il Paese. Lui, la moglie cubana Sissi e i due gemelli nati all’Avana. «Non ebbi esitazioni, nessuno mai mi aveva detto cosa fare o cosa non fare. Lasciammo quel posto meraviglioso, quella gente stupenda, e decidemmo di andare a vivere in Messico, a Veracruz. Sono stati dieci anni importanti, una tappa necessaria di avvicinamento per mia moglie e per i miei figli verso Occidente. Il passaggio dall’Avana a New York, dove io avevo casa dal ’79, sarebbe stato un trauma troppo forte».
Ora il trauma è scongiurato, i ragazzi sono diciottenni appena laureati negli States, Bazan è tornato nella sua casa di Brooklyn e Sissi, come egli stesso dice, dopo aver preso un master in Economia, continua a essere «l’equilibrio della mia vita».
Ma quei quattordici anni sono memoria incancellabile nell’esistenza di questo fotografo nato 57 anni fa, giramondo per vocazione, enfant prodige accolto prestissimo all’agenzia Magnum e altrettanto presto uscito. Una memoria che tra pochi giorni sarà esposta in una grande antologica nella sua Palermo, città che — se esistesse il luminol delle identità — sarebbe rintracciabile per sempre sulla pelle di ognuno che lì è nato. E Bazan, in questo, non fa eccezione. «I cubani sono un popolo generoso, coraggioso, commovente: mi ricordano i siciliani. E l’Avana è una miniera d’oro d’umanità, un po’ com’era la Palermo di Enzo Sellerio... Sono inguaribile, vero?». E New York, dov’è andato nel ’79 per studiare fotografia alla School of Visual Arts, che cos’è? «Il mio rifugio, la città dove è custodito il mio archivio».
Scartabellando tra le sue immagini ci sono i ritratti degli anni Settanta, la sua famiglia siciliana, ritratti puliti, eleganti, scattati da un ragazzino di forse quattordici anni. Più avanti nel tempo, i grandi reportage in giro per il mondo, quelli che gli fruttarono negli anni Novanta un primo posto al World Press Photo, e a seguire l’ambitissimo premio Eugene Smith e la borsa di studio della Guggenheim Foundation. Foto in bianco e nero, con rare eccezioni recenti, tutte rigorosamente in pellicola e, spesso, panoramiche. «Non amo la velocità del digitale. Ho voglia che le immagini si sedimentino, che io possa avere il tempo per decidere, scegliere con il senno della lentezza. Non mi ritengo un fotogiornali- sta, preferisco credere al mio sguardo di poeta di strada, la poesia degli umili... Vorrei essere il cantore della gente che non farà mai notizia».
Eppure, per «Newsweek» e per tanti altri giornali, Bazan ha fotografato persino i fratelli Castro e Bill Gates, i diavoli e l’acquasanta oppure viceversa, a seconda dei gusti. «Lavori commerciali, niente di più. Ma a me interessavano i contadini cubani. Lì ho ritrovato la mia campagna palermitana, i riti della terra». No, con Bazan il luminol non serve.
E se poi gli chiedete chi trova posto nel suo personale Pantheon fotografico, la prima risposta è Robert Frank, il genio che raccontò l’America che «non avrebbe mai fatto notizia», seguito, in una speciale classifica siciliana, da Enzo Sellerio, Ferdinando Scianna, Letizia Battaglia, Franco Zecchin, Peppino Leone. Isole, sempre isole nella vita di questo fotografo: che sia Cuba o la Sicilia. L’Avana o Palermo, dove uno dei monumenti arabonormanni più stupefacenti si chiama La Cuba, eretto nel 1180 all’interno di un’area di Sollazzi Regi, in corso Calatafimi.
«Io in Sicilia torno ogni anno per organizzare il mio workshop nella Settimana santa. Un gruppo di fotografi lavora con me in giro, io insegno. Lo faccio anche negli Stati Uniti o in Brasile o a Napoli. Ed è la cosa che mi piace di più. Trasferisco modi, conoscenze; lo faccio da sempre, ed è per questo che mi hanno cacciato da Cuba». Quattordici anni di vita finiti in tre libri molto belli, autopubblicati dal 2008 in poi da Bazan grazie a un crowdfunding particolare. «Sono stati i miei allievi ad aiutarmi a pubblicare Bazan Cuba, Al Campo e Isla. Chi mi finanzia ha diritto ad avere una copia con dentro una foto originale ai sali d’argento, numerata. Essere editore di me stesso è una grande libertà».
La libertà di José Martí, ma senza il mostro.