Corriere della Sera - La Lettura
A volte convivono Tribù e istituzioni nella politica ibrida
Le forme arcaiche e moderne del potere non sono rigidamente alternative le une alle altre
Due domande hanno caratterizzato gli esordi del dibattito antropologico sullo Stato. La prima: per quali ragioni, in diverse aree di mondo, dall’Africa dei Grandi Laghi all’America precolombiana fino alle Hawaii, sono sorte formazioni politiche simili a quegli Stati nazione europei che apparivano come un «naturale» approdo dell’organizzazione politica occidentale? Quali sono o erano le caratteristiche di questi Stati che vennero variamente definiti come «primitivi», «premoderni» o «segmentari» — per sottolineare un centralismo imperfetto e una cronica instabilità? Nel clima evoluzionista di fine Ottocento e nel neoevoluzionismo degli anni Cinquanta, gli Stati «altri» vennero per lo più indagati come forme intermedie nel cammino verso lo Stato moderno, in cui emergevano meccanismi di redistribuzione delle risorse e permaneva un forte legame tra il potere politico e la sfera del sacro.
La seconda domanda: quali sono le caratteristiche delle società senza Stato? Come organizzano la ripartizione delle risorse, il mantenimento dell’ordine, l’accesso al potere? Nel 1940 Meyer Fortes e Edward Evans-Pritchard pubblicarono una raccolta di saggi che è considerata la pietra miliare degli studi di antropologia politica, African Political Systems (Oxford University Press). La classificazione, in seguito molto discussa e infinite volte rivista, dei sistemi politici africani in «bande», «tribù», chiefdom e «Stati» o «Regni primitivi» ha avuto un’enorme influenza nella storia degli studi, ma anche nell’imporre queste categorie al lessico comune.
Formazione caratteristica dei cacciatori e raccoglitori (detti oggi più correttamente «società acquisitive»), la «banda» riunisce qualche decina di persone legate da relazioni di parentela ed è caratterizzata da una debole leadership, per lo più identificata con l’età avanzata. Queste società che non praticano l’agricoltura e l’allevamento, ma per lo più si muovono su vasti territori in cerca di risorse, non inventano lo Stato e, in genere, intrattengono rapporti molto problematici con le formazioni statuali e i loro rigidi confini. La «tribù», un termine che è stato ed è tuttora indebitamente utilizzato come sinonimo di «società» (per lo più con un senso dispregiativo e arcaico), indica in realtà nel linguaggio dell’antropologia politica una organizzazione centrata su nuclei parentali di dimensione crescente: il lignaggio, il clan e la «tribù» appunto.
In uno dei più celebri libri di antropologia sociale, I Nuer: un’anarchia ordinata (Franco Angeli, 2015) Evans-Pritchard mostrò che in una società senza Stato come quella degli allevatori di bestiame Nuer del Sudan, l’ordine era garantito dalla fusione e fissione dei gruppi di parentela che, a seconda delle stagioni e delle necessità strategiche, si univano e si separavano per contrastare gruppi avversari, in una competizione perenne per le risorse (erba e pozze d’acqua, sostanzialmente). La «tribù», potremmo dire, è un’organizzazione politica a geometria variabile.
I termini chiefdom e il suo equivalente francese chefferie (alcuni autori propongono di tradurre in italiano con «domi- ni» o «potentati») indicano quelle forme di organizzazione politica, anche oggi ampiamente diffuse in Africa e in Oceania, che ruotano attorno alla presenza di «capi» tradizionali. In un celebre articolo degli anni Cinquanta, Marshall Sahlins distinse il «capo», dotato di un potere ascritto, sovrano su un territorio ben definito e relativamente stabile, il quale esercita un’autorità sulla base di un «titolo» o di una carica pubblica istituzionalmente riconosciuta, dal big man, figura tipica del mondo melanesiano. Il potere di quest’ultimo è acquisito, cronicamente instabile, legato alla creazione di una fazione che inevitabilmente decade con lui. I chiefdom rappresenterebbero insomma l’anello mancante tra le società senza Stato e la società statuali.
In quello che può essere considerato una sorta di manifesto dell’antropologia anarchica, Pierre Clastres si pose in netta contrapposizione con le visioni evoluzioniste della politica. La società contro lo Stato (Ombre Corte, 2003) un testo costruito a partire da esperienze di ricerca in Amazzonia, attribuisce a molte società latino-americane una attitudine anti-statuale. La formazione dello Stato, con le sue diseguaglianze economiche, con l’interruzione della catena di reciprocità che lega gli esseri umani nelle società tradizionali, viene combattuta con precise strategie, tra cui il perenne stato di guerra tra i vari segmenti che compongono la società.
Tanto le teorie dell’integrazione e della «solidarietà», quelle cioè che enfatizzano il sorgere dello Stato come elemento di coesione o patto sociale; tanto le teorie del conflitto, che sottolineano la dimensione del potere, della diseguaglianza, del sostanziarsi di privilegi nella nascita degli Stati; E tanto, ancora, la teoria della società contro lo Stato, hanno spesso condiviso un approccio dicotomico e oppositivo: o c’è o non c’è lo Stato; o ci sono bande, tribù e chiefdom o ci sono gli Stati. L’antropologia più recente lavora invece sulla ibridità delle categorie e sulla problematicità dei confini. L’etnologo francese Eric Wittersheim ha coniato l’espressione «società nello Stato» ( Des sociétés dans l’État, Aux Lieu d’Etre, 2006) per riferirsi alla situazione di numerosi Stati insulari del Pacifico — ma le sue osservazioni possono estendersi ben oltre l’Oceania — in cui tuttora le istituzioni tipiche dello Stato (sistemi elettorali, parlamenti, costituzioni ecc.) convivono e si articolano con sistemi politici incentrati sulle figure dei big men o su preesistenti chiefdom. Viaggiando tra le culture la nozione e la pratica della democrazia si modellano seguendo, per così dire, le pieghe del terreno culturale e politico incontrato. La visione onnivora dello Stato, che divora le specie selvatiche diffondendosi a macchia d’olio su tutto un territorio, appare insomma contraddetta dalla persistenza dinamica e creativa di formazioni che resistono e spesso si oppongono e dall’esistenza di aree vuote e insofferenti ai poteri statuali. Allo stesso modo, come ha magistralmente mostrato proprio il lavoro di Arjun Appadurai intervistato in queste pagine, nell’epoca della globalizzazione gli Stati sono attraversati da flussi di persone, merci e rappresentazioni che infrangono la comunità immaginata e la finzione dell’omogeneità nazionale.