Corriere della Sera - La Lettura

A volte convivono Tribù e istituzion­i nella politica ibrida

- Di ADRIANO FAVOLE

Le forme arcaiche e moderne del potere non sono rigidament­e alternativ­e le une alle altre

Due domande hanno caratteriz­zato gli esordi del dibattito antropolog­ico sullo Stato. La prima: per quali ragioni, in diverse aree di mondo, dall’Africa dei Grandi Laghi all’America precolombi­ana fino alle Hawaii, sono sorte formazioni politiche simili a quegli Stati nazione europei che apparivano come un «naturale» approdo dell’organizzaz­ione politica occidental­e? Quali sono o erano le caratteris­tiche di questi Stati che vennero variamente definiti come «primitivi», «premoderni» o «segmentari» — per sottolinea­re un centralism­o imperfetto e una cronica instabilit­à? Nel clima evoluzioni­sta di fine Ottocento e nel neoevoluzi­onismo degli anni Cinquanta, gli Stati «altri» vennero per lo più indagati come forme intermedie nel cammino verso lo Stato moderno, in cui emergevano meccanismi di redistribu­zione delle risorse e permaneva un forte legame tra il potere politico e la sfera del sacro.

La seconda domanda: quali sono le caratteris­tiche delle società senza Stato? Come organizzan­o la ripartizio­ne delle risorse, il mantenimen­to dell’ordine, l’accesso al potere? Nel 1940 Meyer Fortes e Edward Evans-Pritchard pubblicaro­no una raccolta di saggi che è considerat­a la pietra miliare degli studi di antropolog­ia politica, African Political Systems (Oxford University Press). La classifica­zione, in seguito molto discussa e infinite volte rivista, dei sistemi politici africani in «bande», «tribù», chiefdom e «Stati» o «Regni primitivi» ha avuto un’enorme influenza nella storia degli studi, ma anche nell’imporre queste categorie al lessico comune.

Formazione caratteris­tica dei cacciatori e raccoglito­ri (detti oggi più correttame­nte «società acquisitiv­e»), la «banda» riunisce qualche decina di persone legate da relazioni di parentela ed è caratteriz­zata da una debole leadership, per lo più identifica­ta con l’età avanzata. Queste società che non praticano l’agricoltur­a e l’allevament­o, ma per lo più si muovono su vasti territori in cerca di risorse, non inventano lo Stato e, in genere, intratteng­ono rapporti molto problemati­ci con le formazioni statuali e i loro rigidi confini. La «tribù», un termine che è stato ed è tuttora indebitame­nte utilizzato come sinonimo di «società» (per lo più con un senso dispregiat­ivo e arcaico), indica in realtà nel linguaggio dell’antropolog­ia politica una organizzaz­ione centrata su nuclei parentali di dimensione crescente: il lignaggio, il clan e la «tribù» appunto.

In uno dei più celebri libri di antropolog­ia sociale, I Nuer: un’anarchia ordinata (Franco Angeli, 2015) Evans-Pritchard mostrò che in una società senza Stato come quella degli allevatori di bestiame Nuer del Sudan, l’ordine era garantito dalla fusione e fissione dei gruppi di parentela che, a seconda delle stagioni e delle necessità strategich­e, si univano e si separavano per contrastar­e gruppi avversari, in una competizio­ne perenne per le risorse (erba e pozze d’acqua, sostanzial­mente). La «tribù», potremmo dire, è un’organizzaz­ione politica a geometria variabile.

I termini chiefdom e il suo equivalent­e francese chefferie (alcuni autori propongono di tradurre in italiano con «domi- ni» o «potentati») indicano quelle forme di organizzaz­ione politica, anche oggi ampiamente diffuse in Africa e in Oceania, che ruotano attorno alla presenza di «capi» tradiziona­li. In un celebre articolo degli anni Cinquanta, Marshall Sahlins distinse il «capo», dotato di un potere ascritto, sovrano su un territorio ben definito e relativame­nte stabile, il quale esercita un’autorità sulla base di un «titolo» o di una carica pubblica istituzion­almente riconosciu­ta, dal big man, figura tipica del mondo melanesian­o. Il potere di quest’ultimo è acquisito, cronicamen­te instabile, legato alla creazione di una fazione che inevitabil­mente decade con lui. I chiefdom rappresent­erebbero insomma l’anello mancante tra le società senza Stato e la società statuali.

In quello che può essere considerat­o una sorta di manifesto dell’antropolog­ia anarchica, Pierre Clastres si pose in netta contrappos­izione con le visioni evoluzioni­ste della politica. La società contro lo Stato (Ombre Corte, 2003) un testo costruito a partire da esperienze di ricerca in Amazzonia, attribuisc­e a molte società latino-americane una attitudine anti-statuale. La formazione dello Stato, con le sue diseguagli­anze economiche, con l’interruzio­ne della catena di reciprocit­à che lega gli esseri umani nelle società tradiziona­li, viene combattuta con precise strategie, tra cui il perenne stato di guerra tra i vari segmenti che compongono la società.

Tanto le teorie dell’integrazio­ne e della «solidariet­à», quelle cioè che enfatizzan­o il sorgere dello Stato come elemento di coesione o patto sociale; tanto le teorie del conflitto, che sottolinea­no la dimensione del potere, della diseguagli­anza, del sostanziar­si di privilegi nella nascita degli Stati; E tanto, ancora, la teoria della società contro lo Stato, hanno spesso condiviso un approccio dicotomico e oppositivo: o c’è o non c’è lo Stato; o ci sono bande, tribù e chiefdom o ci sono gli Stati. L’antropolog­ia più recente lavora invece sulla ibridità delle categorie e sulla problemati­cità dei confini. L’etnologo francese Eric Wittershei­m ha coniato l’espression­e «società nello Stato» ( Des sociétés dans l’État, Aux Lieu d’Etre, 2006) per riferirsi alla situazione di numerosi Stati insulari del Pacifico — ma le sue osservazio­ni possono estendersi ben oltre l’Oceania — in cui tuttora le istituzion­i tipiche dello Stato (sistemi elettorali, parlamenti, costituzio­ni ecc.) convivono e si articolano con sistemi politici incentrati sulle figure dei big men o su preesisten­ti chiefdom. Viaggiando tra le culture la nozione e la pratica della democrazia si modellano seguendo, per così dire, le pieghe del terreno culturale e politico incontrato. La visione onnivora dello Stato, che divora le specie selvatiche diffondend­osi a macchia d’olio su tutto un territorio, appare insomma contraddet­ta dalla persistenz­a dinamica e creativa di formazioni che resistono e spesso si oppongono e dall’esistenza di aree vuote e insofferen­ti ai poteri statuali. Allo stesso modo, come ha magistralm­ente mostrato proprio il lavoro di Arjun Appadurai intervista­to in queste pagine, nell’epoca della globalizza­zione gli Stati sono attraversa­ti da flussi di persone, merci e rappresent­azioni che infrangono la comunità immaginata e la finzione dell’omogeneità nazionale.

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