Corriere della Sera - La Lettura
Le amiche ritrovate nella Trieste liberata
Si può tornare indietro? Si può, a volte, a patto di avere la consapevolezza che niente sarà come prima. Non prevede il punto di domanda il titolo del romanzo di Ada Murolo, pubblicato da Astoria. Si può tornare indietro si apre e si chiude in un giorno preciso, il 4 novembre 1954, quando i triestini, «incuranti o forse inconsapevoli degli accordi sui confini», scendono in piazza Grande per festeggiare il ritorno di Trieste all’Italia: gli spazi sono angusti («alle spalle una coroncina di alture e, di fronte, un’esile striscia di verde lungo il mare»), ma è il giorno della parata delle forze armate e anche il cielo sembra voler partecipare alla festa prodigando una luce splendente. In piazza ci sono tutti: sloveni, profughi istriani, reduci di guerra e sopravvissuti, fascisti e comunisti. Tutti festeggiano una patria inesistente, custodita soltanto dalla nostalgia.
Solo qualche giorno prima, a ottobre, la città «come una sposa trepida d’insensata speranza, si era addobbata di miriadi di bandierine verdebiancorosse» per accogliere le truppe italiane mentre le forze alleate lasciavano la città consegnando ai giornali di mezzo mondo l’immagine di «una ragazza sospesa tra le braccia di un giovane e biondo militare fuori dal finestrino», cameo simbolo di tante storie tutte uguali, fatte di dolore, amore e illusioni.
Nella stessa piazza ci sono, oltre dieci anni dopo il loro ultimo incontro, Berta e Alina, due amiche, due compagne di scuola, che in passato hanno condiviso tanto e che soltanto nell’ultima riga si riconosceranno. Le loro esistenze sono compresse nel mezzo, nelle poco più di duecento pagine del libro, in cui Ada Murolo, insegnante calabrese vissuta a lungo a Trieste, autrice dei racconti di La città straniera (Città del Sole) e nel 2013 del romanzo Il mare di Palizzi (Frassinelli), segna il passo della Storia.
«No se pol più tornar indrìo» pensa, in triestino, Alberta Allegretto detta Berta, figlia di una domestica e di un alcolizzato, trentenne di «una bellezza sciupata e aggressiva», da qualche mese tornata a Trieste con le figlie da Poli di Ravenna, il paese immerso nella campagna gelata d’inverno, arsa d’estate dove il marito bracciante conosciuto a vent’anni quando era soltanto un bel caporale romagnolo di
È seguendo quegl i ore cc hi ni c h e A d a Muro l o srotola l’intreccio con una serie di flashback che restituiscono in modo vivido l’atmosfera di quegli anni, i tradimenti, le codardie nascoste dietro gli usci chiusi mentre procedono i rastrellamenti, le miserie e gli slanci di generosità, il rapido passare dalla parte dei vincitori.
Ricostruendo le storie delle due amiche (l’ultima volta che si vedono Berta è incinta e Alina la accompagna da una vecchia che, hanno sentito dire, pratica aborti clandestini, ma fuggiranno ancora prima di incontrarla), Ada Murolo disegna una topografia precisa e a volte fin troppo suggestiva della città, rendendo Trieste protagonista al pari delle due donne. Il girovagare convulso per le strade del ghetto di Alina e della madre per avvertire il padre e il fratello delle retate incombenti, le panchine al Passeggio Sant’Andrea, dove Bernì propone a Berta di sposarlo, il caffè San Marco, piazza Ponterosso, il Canal Grande, Miramare e i grandi magazzini di cemento grigio, le Rive e il Molo Audace, le vie e i cantoni della città vecchia con «il tanfo di birra e di crauti e di cren» si animano di vita in quei giorni pieni di rivolgimenti.
Risuona per le strade spazzate da raffiche di bora e nelle misere stanze in affitto la parlata triestina con cui Murolo dà espressività ai dialoghi in una scelta quasi obbligata, di aderenza all’impianto narrativo, all’epoca, all’ambiente popolare nel quale colloca i suoi protagonisti. Sorretto da uno stile classico, elegante, che fa da contrappunto a un andamento a tratti incalzante, e che soltanto nel finale perde la sua tenuta, Ada Murolo mette in pagina una sorta di tragico feuilleton che non banalizza gli eventi storici, ma li filtra attraverso le maglie del privato. Che per Berta è fatto di slanci e compromessi, desideri frustrati e abbandoni, mentre Alina porta sul braccio il marchio della sopravvissuta. Il finale aperto per entrambe è in realtà un desiderato, consolatorio inizio.