Corriere della Sera - La Lettura
La nuova frontiera di Everett Il West affollato di donne e neri
«Puoi ucc i dere t ut to , puoi farlo a pezzi e ricostruirlo da capo, puoi irrigarlo a dovere, ma il deserto è il deserto, sempre più deserto di giorno in giorno». I nove racconti che compongono il nuovo libro di Percival Everett, In un palmo d’acqua, si nutrono dell’energia statica ed eterna delle lande di sabbia ai piedi delle Montagne Rocciose. Lo scrittore nato nel 1956 nella base militare di Fort Gordon, in Georgia, conosce bene quel mondo fatto di silenzi e orizzonti, dove il caos delle auto in coda e le complicazioni della vita digitale sembrano vezzi da gente di città. E ancora una volta, dopo aver esplorato temi e stili diversi — miti greci, crimini d’odio, ritorni dall’aldilà, razzismo verso gli afroamericani — torna alle ambientazioni western, le «storie da ranch» che rispolverano la mitologia dell’America profonda provando, allo stesso tempo, a minarne gli stereotipi. A cominciare proprio da quell’espressione «wild west», il selvaggio west, che Everett, tra i più abili e premiati narratori americani dei nostri giorni, non sente di sposare fino in fondo.
«Le mie storie sono ambientate nel Wyoming di oggi, una parte degli Stati Uniti che conosco bene, come conosco la vita dei ranch e so qualcosa dei cavalli. Insomma è un mondo molto familiare per me. Più che selvaggio, lo definirei “quasi” selvaggio», precisa Everett alla «Lettura» dalla sua casa di Los Angeles, città dove insegna letteratura alla University of Southern California e dove ha scelto di vivere insieme alla famiglia «perché è più comodo per i figli e per il lavoro». È nell’interpretazione intelligente dei due mondi — quello ultramoderno di West Hollywood e quello sospeso del deserto — che si sviluppano i personaggi di Everett, autore di libri memorabili come Percival Everett di Virgil Russell, Ferito, Deserto Americano (editi in Italia da Nutrimenti). In quest’ultimo In un palmo d’acqua, ap- pena uscito per Nutrimenti, gli uomini e le donne non si accontentano, al pari dei loro avi, della legge della natura ma — come il piccolo Daniel che, in seguito alla morte della sorella, va in cura da una psicologa — ricorrono anche alle possibilità offerte dal «nuovo mondo». Lo fanno con la consapevolezza di chi sa di trovare in esse strumenti accessori, non soluzioni per vite danneggiate e in preda all’imprevedibilità del destino, vero protagonista del libro. Dal giorno della scomparsa della sorella, morta annegata e ubriaca in un fiume «Daniel non avrebbe più sorriso per sei anni — scrive Everett —. E quando finalmente lo fece, nessuno capì perché».
Il conforto in In un palmo d’acqua si trova nella solitudine dei laghi, nelle pesca delle trote, nella cura di un cavallo, nelle strade provinciali con pochi alberi. «Ho cercato un linguaggio — racconta Everett — che riflettesse quella quiete». L’ha trovato ispirandosi a maestri come James Welch, Wallace Stegner, Jean Stafford, Thomas McGuane e riportando alla luce l’estrema varietà di quei mondi. Se il mito cinematografico e letterario ha disegnato, infatti, un’America di frontiera bianca, maschile e violenta, Percival Everett ripara la bilancia della storia: quasi un terzo dei cowboy erano neri. E sono stati gli afroamericani, insieme a esploratori di tutte le provenienze, tra cui moltissime donne, a costruire le ferrovie e le strade dove correvano con i loro cavalli. Così, In un palmo d’acqua è un libro politico senza il progetto di esserlo, dove il «Far West» richiama l’Africa e ci sono donne con le schiene spezzate — come Norma Snow nel racconto «Un lago d’alta quo-