Corriere della Sera - La Lettura
I pensieri dal ground zero di Schultz
Quella di Philip Schultz è una vicenda poetica segnata da tratti di forte originalità. Nato nel 1945 a Rochester, nello stato di New York, da una famiglia di ebrei russi e polacchi immigrata negli Stati Uniti, ha imparato a leggere e a scrivere solo all’età di undici anni, all’interno di un contesto sociale oltremodo difficile e ostile. Non poteva nascere più lontano dalla poesia, sembrerebbe. Eppure, proprio a partire da questa singolarità, la sua scrittura poetica, meglio ancora, la sua necessità di scrivere poesie porta con sé qualcosa di sintomatico e di riconoscibile, tanto più dopo le tante esperienze che negli ultimi cinquant’anni, anzitutto negli Stati Uniti, hanno fatto del discorso poetico una specie di personale opportunità terapeutica.
Fin dalla giovinezza la parola in quanto tale viene sentita da Schultz come qualcosa di elevato, come il superamento della propria parte malata e del degrado familiare, come il miraggio di un’identità diversa e migliore. Semplice ma essenziale, elementare ma incontestabile, il suo modo di essere poeta sta allora tutto qui: la poesia viene intesa di volta in volta come possibilità di chiarificazione, affioramento, comprensione, medicamento, riparazione di una ferita esistenziale e psichica difficilmente suturabile; eppure in questo procedimento che ambisce niente di meno che a una chiarificazione e a una pacificazione interiore, il poeta arriva a definire un’immagine del mondo e delle cose che va ben al di là di se stesso.
Di questo scrittore statunitense si conosceva finora in Italia il volumetto La mia dislessia. Ricordi di un premio Pulitzer che non sapeva né leggere né scrivere (2011), pubblicato da Donzelli nell’anno passato: un racconto autobiografico in cui Schultz illustra le coordinate esistenziali e gli elementi di metodo che costituiscono la premessa della sua scrittura, in particolare poetica. Sempre da Donzelli è uscita ora una raccolta di versi, Erranti senza ali, che costituisce parte integrante del suo libro più riconosciuto e celebrato, Failure (Fallimento), vincitore tra gli altri del premio Pulitzer per la poesia del 2008 (la traduzione italiana — ne dà conto una nota posta in calce al volume — è opera comune di un team di cinque traduttrici). Così a questo punto è possibile prendere direttamente atto sia delle componenti più viscerali e instabili, sia dei fondamenti etici e delle aspirazioni che costituiscono, tutti quanti insieme, il combustibile delle sue poesie. In questi versi volontà e necessità fanno davvero tutt’uno: il desiderio dello scrittore di approdare a una diversa identità personale non si distingue dalla spinta, quasi selvaggia, a liberarsi dai propri fantasmi e dalle proprie ossessioni.
Tuttavia, come accennavo, la sonda poetica calata nella storia personale e nel sussultorio tracciato mentale del personaggio che racconta in prima persona, costituisce solo un versante o comunque una delle due polarità che determinano la corrente poetica di questi versi. C’è infatti anche il mondo esterno, ci sono sempre gli altri, a cui il protagonista non smette di guardare e anzi di chiedere, non importa se per prossimità o per contrasto, la rivelazione di un senso possibile. Quella di Erranti senza ali è in realtà una poesia a vocazione comunitaria, sociale. «Ehi — questa è l’America/ all’inizio del/ XXI secolo», recita una sequenza che sembra un po’ il manifesto del libro intero. Ed è questa un’America — è il tratto più interessante — fissata non solo o non tanto da una specie di ground zero economico o sociale, ma anche e soprattutto psicologico, umano, antropologico. Non a caso spesso e volentieri lo sguardo, meglio ancora il parametro a cui le situazioni rac- contate vengono commisurate è il più basico e rasoterra possibile, quello dei marciapiedi, dell’erba dei parchi, dei cani. Nei monologhi di Erranti senza ali, come ha spiegato Paola Splendore, che ne ha curato l’edizione italiana, «un dog-walker di New York, alter ego dell’autore, esprime una sua filosofia minima di vita, una visione dal basso, ad altezza di cane, si direbbe».
Il libro si scandisce sull’alternanza di sequenze poetiche che fanno centro ora sul territorio cittadino, in particolare tra il Village e il parco di Washington Square, a Manhattan, ora invece sullo spazio psichico e sui ricordi traumatici dell’infanzia e della giovinezza, con la loro lunga coda che si spinge fino alla maturità e alla vita presente dell’io protagonista: la figura negativa del padre, l’iniziazione al mondo del lavoro, il dissesto mentale, la depressione, il tentativo di suicidio, l’elettroshock, le stanze e le corsie degli ospedali. Il «dolore nero», così anche viene chiamato. Tuttavia, le sequenze più originali credo siano quelle più a ridosso del presente, in una sorta di rinnovata America oggi in cui la descrizione di una semplice andatura, di un gesto, di un’espressione, di una parola, assumono spesso una risonanza psicologica ed emotiva che le rende emblematiche di una situazione più generale.
Così, proprio come le iniziazioni negative dell’infanzia vengono evocate, senza alcuna possibilità di una redenzione elegiaca, per confermare lo stato di cose presente (i ricordi sono crudi e vivi, la loro ferita è ancora aperta), così l’osservazione degli uomini che si muovono nelle contrade cittadine, le percezioni, gli odori, i rumori, finiscono per inverare sul piano della realtà esterna ciò che il protagonista pensava esclusivamente suo sul piano della storia personale e della dimensione psicologica. Questo risulta tanto più vero quando si tratta dell’11 settembre e della situazione che ne è seguita, che costituisce uno dei principali fili conduttori di queste poesie («le grandi assenze gemelle/ che tutti fingiamo/ di non notare più...»). Distruzione, crolli, fumi, rovine, lacune e colpi a vuoto della mente, sembrano allora materializzare i fantasmi individuali nella realtà tangibile, e viceversa: «Lo scorso settembre/ un buon numero/ di elettroni rabbiosi/ mi sono rimbalzati/ nel cervello/ mentre scendevo per/ una strada devastata/ dopo l’altra».
Non resta che chiedersi se il motivo del fallimento personale, che costituisce il vero fulcro del libro, non finisca in qualche modo per rovesciare la malattia in salute e, di conseguenza, se lo sdoppiamento narrativo e il percorso di sopravvivenza poetica abbiano avuto per l’autore una effettiva incidenza terapeutica. Sì e no, si dovrebbe rispondere. No, se si pensa al continuo stato di allarme, all’avvertimento della paura, al terrore di essere risucchiati, di finire un’altra volta «a capofitto/ alla deriva/ nell’impenetrabile buio», che attraversano ognuno di questi versi. Ma la risposta non può che essere positiva se si riconosce invece l’apertura esistenziale e, insieme, il valore etico di un percorso di conoscenza che rovescia una nell’altra questione privata e questione pubblica, individuo e comunità. Salute o, più probabilmente, malattia, ci troviamo comunque sulla stessa barca, sembra dire Schultz: «Siamo tutti parte di un branco,/ eseguiamo le nostre variazioni/ dell’ululato della solitudine,/ implorando/ i nostri fratelli e sorelle/ di unirsi a noi/ nel canto della tribù».