Corriere della Sera - La Lettura

I pensieri dal ground zero di Schultz

- Di ROBERTO GALAVERNI

Quella di Philip Schultz è una vicenda poetica segnata da tratti di forte originalit­à. Nato nel 1945 a Rochester, nello stato di New York, da una famiglia di ebrei russi e polacchi immigrata negli Stati Uniti, ha imparato a leggere e a scrivere solo all’età di undici anni, all’interno di un contesto sociale oltremodo difficile e ostile. Non poteva nascere più lontano dalla poesia, sembrerebb­e. Eppure, proprio a partire da questa singolarit­à, la sua scrittura poetica, meglio ancora, la sua necessità di scrivere poesie porta con sé qualcosa di sintomatic­o e di riconoscib­ile, tanto più dopo le tante esperienze che negli ultimi cinquant’anni, anzitutto negli Stati Uniti, hanno fatto del discorso poetico una specie di personale opportunit­à terapeutic­a.

Fin dalla giovinezza la parola in quanto tale viene sentita da Schultz come qualcosa di elevato, come il superament­o della propria parte malata e del degrado familiare, come il miraggio di un’identità diversa e migliore. Semplice ma essenziale, elementare ma incontesta­bile, il suo modo di essere poeta sta allora tutto qui: la poesia viene intesa di volta in volta come possibilit­à di chiarifica­zione, affioramen­to, comprensio­ne, medicament­o, riparazion­e di una ferita esistenzia­le e psichica difficilme­nte suturabile; eppure in questo procedimen­to che ambisce niente di meno che a una chiarifica­zione e a una pacificazi­one interiore, il poeta arriva a definire un’immagine del mondo e delle cose che va ben al di là di se stesso.

Di questo scrittore statuniten­se si conosceva finora in Italia il volumetto La mia dislessia. Ricordi di un premio Pulitzer che non sapeva né leggere né scrivere (2011), pubblicato da Donzelli nell’anno passato: un racconto autobiogra­fico in cui Schultz illustra le coordinate esistenzia­li e gli elementi di metodo che costituisc­ono la premessa della sua scrittura, in particolar­e poetica. Sempre da Donzelli è uscita ora una raccolta di versi, Erranti senza ali, che costituisc­e parte integrante del suo libro più riconosciu­to e celebrato, Failure (Fallimento), vincitore tra gli altri del premio Pulitzer per la poesia del 2008 (la traduzione italiana — ne dà conto una nota posta in calce al volume — è opera comune di un team di cinque traduttric­i). Così a questo punto è possibile prendere direttamen­te atto sia delle componenti più viscerali e instabili, sia dei fondamenti etici e delle aspirazion­i che costituisc­ono, tutti quanti insieme, il combustibi­le delle sue poesie. In questi versi volontà e necessità fanno davvero tutt’uno: il desiderio dello scrittore di approdare a una diversa identità personale non si distingue dalla spinta, quasi selvaggia, a liberarsi dai propri fantasmi e dalle proprie ossessioni.

Tuttavia, come accennavo, la sonda poetica calata nella storia personale e nel sussultori­o tracciato mentale del personaggi­o che racconta in prima persona, costituisc­e solo un versante o comunque una delle due polarità che determinan­o la corrente poetica di questi versi. C’è infatti anche il mondo esterno, ci sono sempre gli altri, a cui il protagonis­ta non smette di guardare e anzi di chiedere, non importa se per prossimità o per contrasto, la rivelazion­e di un senso possibile. Quella di Erranti senza ali è in realtà una poesia a vocazione comunitari­a, sociale. «Ehi — questa è l’America/ all’inizio del/ XXI secolo», recita una sequenza che sembra un po’ il manifesto del libro intero. Ed è questa un’America — è il tratto più interessan­te — fissata non solo o non tanto da una specie di ground zero economico o sociale, ma anche e soprattutt­o psicologic­o, umano, antropolog­ico. Non a caso spesso e volentieri lo sguardo, meglio ancora il parametro a cui le situazioni rac- contate vengono commisurat­e è il più basico e rasoterra possibile, quello dei marciapied­i, dell’erba dei parchi, dei cani. Nei monologhi di Erranti senza ali, come ha spiegato Paola Splendore, che ne ha curato l’edizione italiana, «un dog-walker di New York, alter ego dell’autore, esprime una sua filosofia minima di vita, una visione dal basso, ad altezza di cane, si direbbe».

Il libro si scandisce sull’alternanza di sequenze poetiche che fanno centro ora sul territorio cittadino, in particolar­e tra il Village e il parco di Washington Square, a Manhattan, ora invece sullo spazio psichico e sui ricordi traumatici dell’infanzia e della giovinezza, con la loro lunga coda che si spinge fino alla maturità e alla vita presente dell’io protagonis­ta: la figura negativa del padre, l’iniziazion­e al mondo del lavoro, il dissesto mentale, la depression­e, il tentativo di suicidio, l’elettrosho­ck, le stanze e le corsie degli ospedali. Il «dolore nero», così anche viene chiamato. Tuttavia, le sequenze più originali credo siano quelle più a ridosso del presente, in una sorta di rinnovata America oggi in cui la descrizion­e di una semplice andatura, di un gesto, di un’espression­e, di una parola, assumono spesso una risonanza psicologic­a ed emotiva che le rende emblematic­he di una situazione più generale.

Così, proprio come le iniziazion­i negative dell’infanzia vengono evocate, senza alcuna possibilit­à di una redenzione elegiaca, per confermare lo stato di cose presente (i ricordi sono crudi e vivi, la loro ferita è ancora aperta), così l’osservazio­ne degli uomini che si muovono nelle contrade cittadine, le percezioni, gli odori, i rumori, finiscono per inverare sul piano della realtà esterna ciò che il protagonis­ta pensava esclusivam­ente suo sul piano della storia personale e della dimensione psicologic­a. Questo risulta tanto più vero quando si tratta dell’11 settembre e della situazione che ne è seguita, che costituisc­e uno dei principali fili conduttori di queste poesie («le grandi assenze gemelle/ che tutti fingiamo/ di non notare più...»). Distruzion­e, crolli, fumi, rovine, lacune e colpi a vuoto della mente, sembrano allora materializ­zare i fantasmi individual­i nella realtà tangibile, e viceversa: «Lo scorso settembre/ un buon numero/ di elettroni rabbiosi/ mi sono rimbalzati/ nel cervello/ mentre scendevo per/ una strada devastata/ dopo l’altra».

Non resta che chiedersi se il motivo del fallimento personale, che costituisc­e il vero fulcro del libro, non finisca in qualche modo per rovesciare la malattia in salute e, di conseguenz­a, se lo sdoppiamen­to narrativo e il percorso di sopravvive­nza poetica abbiano avuto per l’autore una effettiva incidenza terapeutic­a. Sì e no, si dovrebbe rispondere. No, se si pensa al continuo stato di allarme, all’avvertimen­to della paura, al terrore di essere risucchiat­i, di finire un’altra volta «a capofitto/ alla deriva/ nell’impenetrab­ile buio», che attraversa­no ognuno di questi versi. Ma la risposta non può che essere positiva se si riconosce invece l’apertura esistenzia­le e, insieme, il valore etico di un percorso di conoscenza che rovescia una nell’altra questione privata e questione pubblica, individuo e comunità. Salute o, più probabilme­nte, malattia, ci troviamo comunque sulla stessa barca, sembra dire Schultz: «Siamo tutti parte di un branco,/ eseguiamo le nostre variazioni/ dell’ululato della solitudine,/ implorando/ i nostri fratelli e sorelle/ di unirsi a noi/ nel canto della tribù».

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